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Le figurine Panini: continuano le Olimpiadi

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figurinePaninePer tornare a provare le emozioni di una volta

Quando la tua pila di doppioni cominciava a crescere a dismisura, e quella decina di spazi bianchi da colmare resisteva a ogni tentativo di riempirli con l’acquisto di figurine nuove, non ti rimanevano che due strade: scambiare i tuoi doppioni con il detentore delle figurine mancanti, cercando di non far trapelare il tuo smodato interesse per le agognatissime introvabili, oppure vincere le maledette al gioco. Oggi, se tutto è diventato più semplice (puoi scambiare figurine comodamente in rete, con migliaia di appassionati come te), il passato continua a esercitare il suo fascino.

Nascono nel lontano 1960 quelle piccole immagini a colori da collezione, stampate su cartoncino, che sarebbero passate alla storia come le figurine Panini. Una storia intramontabile se la magia degli scambi tra possessori di figurine, a dispetto di una virtualizzazione sempre più spinta e fagocitante, non sembra avvertire i segni del tempo. Ne è riprova il fortunato tour della casa modenese con il suo villaggio itinerante, che si snoda attraverso pratiche e amichevoli tensostrutture: iniziato il 7 e l’8 febbraio (Palermo), proseguito il 14 e il 15 (Catania) e il 21 e 22 (Salerno), si concluderà in aprile dopo aver toccato dodici grandi città italiane e decine di centri commerciali dislocati lungo tutta la penisola.
Per far che? Per consentire ai tanti appassionati di scambiarsi figurine o di giocarci, certo, ma anche per recuperare il rapporto con il mondo fisico e tornare a scambiarsi esperienze di contatto reale con i propri simili.

figuriniadiLe “Figuriniadi” atto primo

Quest’anno l’iniziativa di promozione al lancio della collezione Calciatori 2014-2015 della Panini ha preso il nome di Figuriniadi. Si tratta, in effetti, di un vero e proprio campionato nazionale di giochi da praticarsi con le mitiche figurine; tra quiz e prove di destrezza o di abilità, e con la possibilità di aggiudicarsi vari premi (come l’Almanacco illustrato del calcio, la special card Panini o una copertina personalizzabile per il proprio album) e gadget: portachiavi, “segna album”, gagliardetti, ecc. I giochi? Vecchi, nuovi o “restaurati” per l’occasione: Figu record, per chi lancia più lontano la figurina; Figu quizzone, per chi conosce a fondo la storia del calcio; Speedy album, per i più veloci ad attaccare le figurine sul proprio album.

Ieri il Panini World Tour ha toccato il lungomare di Napoli (Rotonda Diaz) e piazza del Ferrarese a Bari (Sala Murat), ma ci si è scambiati figurine anche nei pressi di un’edicola di Cuneo (corso Galileo Ferraris), che ha visto un’entusiastica partecipazione di grandi e piccini, e in un bar nei pressi del campo sportivo di un comune (Terno d’Isola) del Bergamasco. Sarà poi la volta di Roma (7-8 marzo, giardini Nicola Calipari di piazza Vittorio Emanuele II) e di Genova (21-22 marzo, Porto Antico), e quindi di Firenze e di Torino, mentre altre città (Bologna, Verona, Milano) saranno luogo di svolgimento di eventi speciali.

Un’avventura da vivere in spensieratezza e allegria, il Panini World Tour. Anche per non dimenticare.

Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Le figurine Panini – Seconda parte: tanti giochi, e tutti divertenti

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Approfittiamo della tappa romana delle Figuriniadi, l’iniziativa Panini di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, per accompagnare il video realizzato per l’occasione parlando di alcuni fra i tanti giochi con le figurine. Ripartiamo da una delle tre specialità previste dal tour della casa modenese, il “Figu Record”, in cui vince chi riesce a lanciare le proprie il più lontano possibile. Un classico tante volte praticato in passato negli oratori e lungo i corridoi scolastici,, rettilinei nei quali poter sprigionare tutta la potenza della “schicchera” impartita al calciatore, oppure veri e propri circuiti in cui dosare le forze e scegliere le migliori traiettorie; dietro l’angolo c’era sempre il rischio di un ribaltamento che ti costringesse a ripartire dal via.

figurine paniniServe una tecnica rodata anche per giocare a schiaffetto (o botta, schiaffo, schiaffone, scoppoletta a seconda della latitudine), consistente nell’adagiare un mucchietto di figurine su una superficie dura e piana (come un tavolo, oppure il pavimento) per poi, con il colpo secco portato da una mano (o da entrambe) vicino al mazzetto, cercare di “incassare” tutte le figurine che si è riusciti a far capovolgere. Il trucco è di curvare il mazzetto per ottenere un vantaggio dallo spostamento d’aria; tra le tecniche più note, «oltre al palmo aperto, il pugno chiuso, la mano a coppa e il battito delle mani. Naturalmente si vinceva quando il tentativo andava a buon fine e si riusciva a girare tutta la pila. In caso contrario si rendeva all’avversario la posta in gioco, che poteva variare da una a qualche decina di figurine». Un’altra variante del gioco consisteva nel far piombare direttamente la mano sul mazzetto; in questo caso a far la differenza era l’abbondante sudorazione dell’arto. C’era poi la calamita: richiedeva ai giocatori di leccarsi il dorso di una mano per far sì che la figurina vi si attaccasse (come fosse, per l’appunto, calamitata) e, anche qui, si rovesciasse.

Famoso è il soffio, la cui dinamica di gioco è identica a quella appena descritta con un’unica differenza: per far capovolgere le figurine bisogna soffiarci sopra. Anche lo scopo del mignolino è di rovesciare l’oggetto, utilizzando però il solo dito mignolo e mettendo in campo, se si gioca in due, una figurina ciascuno, sempre dopo averla incurvata; vince stavolta chi, insinuando il proprio mignolo sotto le figurine, riesce a girarle entrambe. Si può far sfoggio delle proprie abilità ancora nella pioggia (o vela, o muro), nella quale ciascun concorrente fa aderire la sua figurina a un muro e, al via, la lascia andar giù; si deve riuscire a farla cadere il più vicino possibile al muro (facendola precipitare in verticale, e impedendole di svolazzare a destra e a manca). Più dinamica la variante che prevede il lancio delle proprie figurine giù da un banco, un tavolino, un muretto, ecc., cercando di farle planare su quelle avversarie. Diverse le opzioni: ci si impossessa in genere della figurina avversaria se si è riusciti a coprirla per almeno il 50% (se questa viene invece coperta per meno della metà della sua superficie si ripete il tiro).

A maschio e femmina, da giocare in due, si mette a terra il proprio mazzetto e, a turno, si girano le figurine ponendole l’una sull’altra su un altro mazzetto; se lo aggiudica chi volta una figurina con l’immagine di un giocatore della stessa squadra di quello della figurina girata in precedenza dall’avversario. Infine mano in petto, in cui c’è da indicare il numero di figurine nascoste dall’avversario sotto la mano che tiene in petto:

Indovinando si vinceva l’intera posta in gioco, mentre se si perdeva si rendeva la differenza tra il numero di figurine dichiarato e quello effettivamente nascosto. Tra le possibilità previste dal gioco anche quella di non mettere nulla sotto la mano: in questo caso se si indovinava si vinceva un numero di figurine prestabilito (generalmente dieci), se si sbagliava […] si rendeva all’avversario il numero di figurine dichiarato. A “mano in petto” era lecito e molto utilizzato anche un trucchetto: ritagliare l’angolo di una figurina e farlo spuntare sotto la mano. L’avversario poteva quindi abboccare e pensare che l’amico nascondesse perlomeno una figurina, quando invece non ce n’era neanche una.

Bei tempi.

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‘I coloni di Catan’, un gioco (quasi) democratico

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L’isola venuta dal freddo

Il gioco da tavolo I coloni di Catan, inventato da Klaus Teuber, è ormai diventato un fenomeno planetario. Disponibile in oltre 30 lingue, è diffuso in una cinquantina di Paesi e giocato da più di 22 milioni di giocatori in tutto il mondo; sfuggirgli è perciò praticamente impossibile. Ma sotto il misterioso nome di Catan che luogo si cela?

Catan è un’isola che a ogni partita cambia aspetto, perché formata da esagoni, dai colori accesi e brillanti, posizionati a caso all’inizio della gara; gli esagoni (campi coltivabili, colline, foreste, montagne, pascoli) producono le materie prime (argilla, grano, lana, legno, minerali) che servono a costruire i luoghi necessari per arrivare alla vittoria.

giocabolario 1

Si legge nell’introduzione di Teuber al romanzo storico ispirato al gioco, opera della scrittrice tedesca Rebecca Gablé (I coloni di Catan, Milano, Armenia, 2005; orig. ted.: 2003):

mi avevano affascinato i vichinghi che […] con le loro imbarcazioni
avevano fatto rotta per l’Islanda, la Groenlandia e l’America, ed
erano riusciti a colonizzare con successo ed in maniera duratura per
lo meno l’Islanda […]. L’Islanda era disabitata, e l’isola non doveva
essere conquistata, bensì creata dal nulla […] Anche Catan
inizialmente è disabitata, e viene civilizzata nel corso del gioco. Ci
si procura legname, si estraggono minerali, si allevano pecore, si
ricava argilla con cui si producono mattoni (p. 5 sg.).

L’isola di Catan, anche se l’Islanda propriamente non è, le deve in ogni caso molto.

Da “Katan” a “Canaan”

Già nel 1995, anno in cui viene messo in commercio dalla Franckh-Kosmos (Stuttgart), Die Siedler von Catan vince in Germania tutti i premi possibili: lo Spiel des Jahres, il Deutscher Spiele Preis, l’Essener Feder. Il gioco sarebbe stato tradotto in Italia l’anno dopo col titolo I coloni di Katan, in continuità con l’edizione uscita in Francia (Les Colons de Katäne, 1995). Quel Katan, non si sa bene perché, sarebbe poi diventato Catan, su cui raccontano storie stravaganti (cfr. Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti, Dizionario dei giochi. Da tavolo, di movimento, di carte […], Bologna, Zanichelli, 2010, p. 268): qualcuno l’ha voluto collegare alla città di Catania e, fra le varie ipotesi, si è ‘invocato’ a spiegazione perfino Satana (in francese: Satan).

Ipotesi bizzarre, come sono bizzarre alcune delle innumerevoli espansioni della versione base; fra le più pittoresche The Communication in Catan (2000), realizzata per conto della compagnia di telecomunicazioni francesi Alcatel, in cui mutano, rispetto alla versione originale, sia i terreni (rurale, residenziale, metropolitano, industriale, high tech) che le materie (telefono fisso, tv via cavo, telefono cellulare, Internet, risorse multimediali); The Settlers of Canaan (2002), con scenari ispirati alla Bibbia e agli antichi ebrei, le cui diverse tribù sono impegnate a edificare la terra di Canaan (e a costruire il muro di Gerusalemme).

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Un gioco davvero per tutti?

Chi ha ragione fra le due tipologie di giocatori? I coloni che mettono in atto precise strategie per aggiudicarsi la vittoria, pur non rinunciando del tutto a confidare nella buona sorte, o quelli che s’affidano senza esitare alla dea bendata, ritenendo il gioco ideato con questo spirito?

È stato lo stesso Teuber a dichiarare – sembra peraltro che ai Coloni di Catan, a detta di chi lo conosce, non vinca mai – di aver voluto creare un passatempo i cui vincitori non sarebbero stati i giocatori di maggior talento. Il suo intento era di dar vita a un gioco ‘democratico’, in cui un bambino avrebbe dovuto avere le stesse possibilità di vittoria di un adulto; questo perché in generale, secondo l’autore, i giochi non devono insegnare nulla e nemmeno occupare troppo i nostri pensieri: devono solo divertire, facendo passare il tempo. Nient’altro.

Detta così, se stiamo ai fatti, I coloni di Catan appaiono un gioco per tutti. Chi ci gioca sa però molto bene che a governarli è un sistema ‘alla tedesca’, che coinvolge il giocatore in qualsiasi momento della gara, non solo quando è il suo turno; la meccanica che vi è alla base ti può far fare domande del tipo: “Com’è possibile che durante il mio turno io non abbia guadagnato nulla, mentre gli altri si sono arricchiti?”. Una particolarità che, soprattutto ai giocatori vecchio stile, potrebbe non piacere.

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani, Matteo Roberti

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‘Twittabolario’, per giocare nel nome di Dante

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Neologismi per gioco?

Il muro portante di una creatività condivisa che possa ritenersi tale, soprattutto oggi, è da individuare nei luoghi d’incontro fra saperi diversi; parliamo di una creatività condivisa ‘seria’, che senza abdicare del tutto alla complessità, senza arrendersi incondizionatamente alla semplificazione, sappia imboccare una strada intermedia tra il semplice e il complesso: la via del semplesso (può giudicarsi o rivelarsi semplesso un testo o un sistema, un processo o l’impianto di un romanzo). Una parola macedonia, ma in realtà, come per adultescente o tante altre voci simili, qualcosa di più del semplice esito di un cortocircuito lessicale. A essere interessati, in questi casi, sono vocaboli di significato opposto (o incompatibili) l’uno rispetto all’altro; chiaro sintomo di un tentativo di conciliazione fra gli opposti del mondo, della volontà di una negoziazione come antidoto a una parcellizzazione dei saperi, favorita dalle nuove tecnologie, propensa ad ampliare oltremisura il dominio d’estensione di singoli termini.

Semplesso e adultescente sono voci coniate in tempi recenti (qualcuno le avrà pur inventate, magari solo per gioco) e sono anche belle perché fulminee, immediate, efficaci. Forse il segreto della vera creatività è proprio la condivisione di complessità, semplicità e bellezza, e l’equilibrio che insieme generano: la complessità corazza la bellezza contro i rischi di un vuoto assoluto della ragione; la bellezza disarma la complessità della sua vocazione preconcetta al distanziamento dal mondo; la semplicità, alleata della bellezza, impedisce di rimanere ‘incartati’ a causa di voli pindarici mal spiccati.

Uno straordinario inventore di parole ‘belle’, un onomaturgo impareggiabile, è stato Dante, di cui si celebra quest’anno il 750° anno dalla nascita. Un’occasione che c’è parsa irripetibile. Il 9 aprile lanceremo perciò a Foligno, all’interno della Festa di Scienza e Filosofia, un progetto di costruzione per gioco di un dizionario di vocaboli o significati inventati. L’impresa, diretta da Massimo Arcangeli e aperta a tutti, è nata in collaborazione con Scritture brevi, la comunità creata su Twitter da Francesca Chiusaroli. Le abbiamo dato così il nome di Twittabolario. I partecipanti dovranno rispettare le consegne di un’estrema concisione, perché gli ‘sms di Internet’ (i tweet) non possono oltrepassare i 140 caratteri, e chi se la sentirà potrà raccogliere anche il guanto di sfida della precisione assoluta: quella richiesta da twittarinun twoosh, di 140 caratteri esatti.

Come si gioca

Il Twittabolario si ispira a un’analoga iniziativa lanciata a Perugia, nel 2013, nell’occasione del Festival IMMaginario: ci si doveva inventare una parola, e le si doveva accompagnare una breve definizione. Vennero allora proposti, fra molti altri, i neologismi mutuopista (l’utopista che si culla nell’illusione di potersi comprare casa con un mutuo), gugoloso (il supergoloso del Web, al limite della bulimia) e mortaggi (gli ortaggi coltivati nella terra dei fuochi), mentre la dedica alla cultura fu sviluppata graficamente con una enorme C, che richiamava una C altrettanto enorme (quella della nave Costa tragicamente incagliatasi all’Isola del Giglio).

Un termine affettuoso per indicare l’affiliato o l’assiduo frequentatore di Twitter, in questo spirito, potrebbe essere twittarino (che farebbe rima con canarino) o twittellino (che richiamerebbe l’uccellino). Lo stesso tweet potrebbe diventare twittio (o twittigolio), e il Twittabolario un bel Cinguettario. Ma, per far capire ancora meglio le tecniche di gioco per partecipare al Twittabolario, ecco altre possibili proposte:

Navigabondo 1. Chi si avventura in quell’immenso oceano che è la Rete per il solo piacere di viaggiare, o perché non sa bene dove andare. 2. Chi, alla guida di un’imbarcazione o altro per il trasporto di persone, riflette a fondo sulla responsabilità che si è assunto perché i suoi passeggeri arrivino a destinazione.

Verbivendolo. Chi ha aperto un piccolo negozio di generi verbali per vendere le parole di una volta, scommettendo sulla loro qualità e freschezza.

Oppinione. Opinione convinta.

Accellerazione. Forte accelerazione.

Riscaldamento globale. Impianto termico per abitazioni di dimensioni planetarie.

Termovalorizzatore. Impianto per conservare al caldo i rifiuti, togliendoli dalla strada e ridando così loro una dignità.

Su Scritture brevi, che rilanciò allora l’iniziativa perugina, furono prodotti altri divertenti esempi più o meno analoghi: monolite: ‘un unico evento litigioso’ (pakicbr @fattorekappa); lessico: ‘gioco di parole passato in acqua fino ad un primo bollore’ (pakicbr @fattorekappa); sottiletta: ‘formaggio a fette molto appressato dalla Presidenza del Consiglio’ (pakicbr @fattorekappa); sonnolenza: ‘detto di chi dorme non piglia pesci’ (@Ninninedda); clarisse: ‘scazzottate tra sorelle’ (@Ninninedda); gattaiola: ‘spazio fiorito riservato esclusivamente ai felini domestici’ (@avadesordre); soldato: ‘unica informazione (@avadesordre)'; mortadella: ‘appartenente alla defunta’ (@avadesordre); EcoGrafia: ‘regole e consigli dello scrivere bene’ (@AlbanoColmo).

Una giuria premierà i più creativi fra i neologisti con una dotazione in dizionari della lingua italiana. La premiazione si svolgerà all’interno del Futura Festival (24 luglio-2 agosto) di Civitanova Marche, gemellato con la manifestazione di Foligno.

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani

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Romics 2015: fumetti, una passione intramontabile

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Un illustre nemico del fumetto

In un raccontino edificante (I figli a scuola), contenuto nella raccolta La messa dei villeggianti (1959), Mario Soldati indossa i panni del laudator temporis acti. I bambini delle elementari non hanno più l’aria dei soldatini in divisa di una volta, con i loro zaini o tracolle “di cartone e tela cerata” (p. 64), ma sembrano, come i loro colleghi più grandi, “tanti avvocati o procuratori o contabili o commessi viaggiatori, che si affannino a campar la vita sorreggendo le loro pesanti borse colme di pratiche, registri, campionari” (p. 65); bersaglio didattico di un’educazione ‘enciclopedica’ e ‘superficiale’, studiano “di tutto un po’ e di nulla sul serio: ogni cosa in fretta, in furia, senza ordine, senza calma e senza amore” (ibid.); non leggono più il ‘magico’ e ‘poetico’ Giulio Verne, e neanche il pure assai meno impegnativo Emilio Salgari, ma si pascono invece di un genere pervasivo: “Imperano i libretti con i fumetti. Il bambino non deve neanche più fare la fatica di leggere. E l’illustrazione, la rara illustrazione, una per capitolo tutt’al più, sulla quale un tempo noi lungamente fantasticavamo, è ormai ammannita a chilometri di vignette, una vignetta per periodo, una per frase, una per battuta di dialogo. Così che il gusto della favola, che è uno dei princìpi della letteratura, e quindi della cultura umana, si perde, si è già perduto. Le menti dei nostri fanciulli sono regredite a quelle dei villani analfabeti che una volta, nelle fiere, si affollavano ad ammirare le povere immagini di qualche leggenda o fattaccio: un cantastorie le sciorinava loro dinanzi e le sue spiegazioni non erano più sommarie né più rozze di queste dei fumetti” (p. 66). Storie che conosciamo bene.

Dalle origini al Ventennio

Durante il Ventennio, fra il 1936 e il 1939, proprio i più famosi romanzi di Salgari erano stati convertiti in fumetto. Intanto, nell’autunno del ’38, il regime aveva vietato l’importazione di tutti i comics (o funnies) americani, fatta eccezione per Topolino (all’inizio Topo Lino) e Paperino, apparsi nei primi anni Trenta; un brutto colpo per L’Avventuroso (1934-1943), dove si potevano leggere, oltre alle storie disneyane, le appassionanti vicende di Mandrake, di Flash Gordon, dell’Uomo Mascherato.

Il triennio 1934-1937 è l’âge d’or del genere, i cui vari esemplari sono ospitati su settimanali di grande formato e generalmente pluritematici (Il Monello, L’Intrepido, L’Audace, Il Vittorioso, etc.). Tutto era iniziato agli albori del Novecento: fra le “sporadiche tavole dei Katzenjammer Kids, di Foxy Grandpa e di Yellow Kid […] pubblicate nella forma originaria statunitense” (Franco Restaino, Storia del fumetto. Da Yellow Kid ai manga, Torino, Utet, 2004, p. 271), nel 1904, sul Novellino di Yambo (Enrico Novelli), e il 27 dicembre 1908, con l’uscita del primo numero del Corriere dei Piccoli, allegato all’edizione domenicale del Corriere della Sera. Il ‘supplemento illustrato’ del quotidiano di via Solferino, in realtà, aveva piuttosto i connotati di un racconto per immagini e testi, come si usava allora: rese orbe dei diseducativi balloons degli originali americani le une, consistenti di didascalie – in forma di accoppiate di ottonari rimati; ad abbatterle ovunque, per la prima volta, L’Avventuroso – gli altri: ‘1. “Bianco e rosso e tondolino / oh che amore di bambino! // 2. Dice Mimmo a Mammoletta: – “Or facciamo una burletta. // 3. Imbottisco come va / i calzoni di papà.” (27 dicembre 1908, anno I, num. 1); “1. Starò fuori un mese, e porto / via la chiave del mio orto, – / dice Franz – ma è caldo assai / e purtroppo i miei rosai, // 2. che nessun più avrà innaffiati, / troverò certo seccati… / Il rimedio al triste caso / già sa Moritz che ha buon naso” (9 luglio 1911, anno III, num. 28).

Fumetto, per ‘nuvoletta’, si era affacciato timidamente nella dizionaristica all’inizio degli anni Quaranta; non molti anni più tardi avrebbe indicato anche il ‘racconto’ e il ‘genere’, via via sostituendo le varie locuzioni adoperate fino a quel momento (come storie e storielle figurate o a quadretti, composte a loro volta di tavole a quadretti). La parola, in realtà, circolava già nel decennio precedente. Il suo probabile inventore, Antonio Rubino, aveva così intitolato un interessante articolo: Parliamo un poco di noi. Che cosa sono i ‘Fumetti’ (Paperino e altre avventure, num. 29, 14 luglio 1938). Il resto alla prossima puntata.

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani

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Fumetti: da Tex al sado-noir

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Una testimonianza degli anni Trenta

Qui di seguito un ampio stralcio dell’articolo del 1938 di Antonio Rubino, che fa da utile contrappeso al brano di Soldati di cui dicevamo la volta scorsa in apertura. Rubino, autore di tante famose tavole liberty pubblicate sul Corrierino (Quadratino, Viperetta, Pierino e l’odiato burattino i suoi fumetti più noti), tutte corredate delle loro brave didascalie rimate, non è che amasse peraltro molto i balloons:

Corrierino-dei-piccoliQuando un personaggio delle nostre storie a quadretti ha qualcosa da dire, si esprime sempre per mezzo di un ‘Fumetto’, cioè di una specie di nuvoletta che gli esce fuori dalla bocca e porta scritta al centro, a caratteri chiari e leggibili, la frase pronunciata. […] E’ molto più semplice e suggestivo leggere le parole che il personaggio dice, che leggere una lunga e complicata descrizione infarcita delle solite frasi: “egli disse, ella rispose, esclamò egli allora…”. […] Non basta: ciascun personaggio ha il ‘Fumetto’ intonato col suo carattere. Topolino ha il Fumetto spiritoso, Pippo ha il Fumetto sciocco, Paperino il Fumetto iracondo, Guido il Fumetto eroico, Gimmi il fumetto sensato, e così via. Il lettore dimentica di essere un lettore, perché i fumetti gli danno veramente l’impressione di sentire le battute dei personaggi, come a teatro o al cinematografo. Qualche pedante ha avuta la malinconica idea di criticare il sistema dei Fumetti, dicendo che con esso diamo ai ragazzi troppo poco da leggere. Essi dimenticano due cose: 1) che i nostri fumetti sono scritti in perfetto italiano; 2) che vale molto più un testo breve che si fa leggere, invece di un testo lungo eterno che nessuno, o ben pochi, hanno il coraggio di affrontare. ‘Poche parole, ma buone’ è il nostro motto“.

L’avvento dei tascabili

Se la seconda metà degli anni Quaranta, nei difficili tempi della ricostruzione postbellica, aveva assistito alla nascita delle economiche strisce (o strips), dalle pagine sviluppate in lunghezza e strutturate in sequenze di poche tavole (come i primi albi di Tex, creato da Gian Luigi Bonelli nel 1948), dal 1957 l’allegato a un altro quotidiano milanese (Il Giorno, nelle edicole dall’anno precedente) aveva cominciato a far concorrenza al Corriere dei Piccoli. Era Il Giorno dei Ragazzi, che usciva il giovedì; abbandonerà la scena nel 1969, seguito a lunghissima distanza (1995) dal Corrierino.

diabolik_01_by_craniodsgnGli anni Cinquanta segnano anche il boom dei tascabili, con i loro ‘chilometri di vignette’ che disturbano il retrogrado e un po’ supponente Soldati. L’Italia, di lì a breve, si sarebbe pasciuta però di fumetti ben più ‘rozzi’, ancorché riservati a un pubblico adulto, di quelli demonizzati dallo scrittore torinese (e da tanti altri in quegli anni); nel 1964 esploderà infatti il genere ‘nero’. Dopo il fortunato esordio di Diabolik (1962), ideato da Angela e Luciana Giussani, è il turno di Kriminal (il ‘re del delitto’) e Satanik (la ‘rossa del diavolo’), creati da due grandi maestri come (Max) Magnus e (Max) Bunker, pseudonimi di Roberto Raviola e Luciano Secchi. L’anno seguente sarà la volta della bella e ricca Zakimort, uscita dalla penna di Pier Carpi. Stavolta abbiamo però a che fare con una ‘semplice’ giustiziera, come nei tanti film di un fortunato filone degli anni Settanta; fra i più noti Un duro per la legge (1973), Il giustiziere della notte (1974), Il cittadino si ribella (1974) e Taxi driver (1976), con una giovanissima Jodie Foster che, molti anni, emulerà De Niro (Il buio nell’anima, 2007).

Fronte del male (e del porno soft)

Con gli eroi del crimine che trionfano, togliendo ai ricchi per dare a sé – nel caso di Diabolik, in coppia con l’affascinante Eva Kant – e beffandosi dei difensori della legge (lo sfigatissimo commissario Ginko, sempre nel noir delle sorelle Giussani), nulla sarà più come prima. Nipotini dell’inafferrabile Fantomas, il prototipico ‘genio del male’, virtuoso del trasformismo, protagonista di un filone del romanzo d’appendice francese che è un po’ l’antenato del noir all’italiana, Diabolik e i suoi fratelli imprimeranno una nuova direzione di marcia al genere: “le prime scene di nudo e di sesso del fumetto italiano […], benché piuttosto castigate, apr[iranno] la strada a un intero filone editoriale, destinato a popolare le edicole italiane per decenni, quello del porno e sado-porno” (Daniele Barbieri, Breve storia della letteratura a fumetti, Roma, Carocci, 2009, p. 104).

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani

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Figurine che passione!

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Giocare per insegnare, insegnare a giocare

Calciatori, ciclisti, attori, poeti, chef, animali, invenzioni, pellerossa o supereroi; quadrate, rettangolari, triangolari, tonde, in bustina, nei cioccolatini, nei pacchetti di sigarette o di fiammiferi. Due elenchi che potrebbero essere facilmente allungati. Cercare di mettere limiti al mondo delle figurine è un’impresa veramente ardua: non esiste soggetto che non sia stata attaccato su di un album; un fenomeno dalle radici profondissime, anche se associato, nell’immaginario collettivo, a pochi punti fermi: il feroce Saladino, i punti della Mira Lanza, i capolavori delle raccolte Liebig, i calciatori Panini e poco altro.

La passione per le figurine aveva a suo tempo coinvolto Luigi XIV (1638-1715), che, fin da piccolo, imparò giocando: per iniziativa del cardinal Mazzarino, che ne aveva affidato la progettazione al poeta e drammaturgo Jean Desmarets de Saint-Sorlin (1595-1676) e la realizzazione all’incisore italiano Stefano Della Bella (1610-1664), il futuro Re Sole potè trastullarsi con quattro giochi di carte, con argomento le favole, la geografia, i re di Francia e le regine famose (Penelope, Ester, Messalina, Brunilde, Maria Stuarda, ecc.), stampati anche in volume (Paris, Le Gras, 1644). Fra i precursori di questo genere di attività educative un altro italiano, l’umanista Vittorino da Feltre, che «raccomandava per i suoi studenti un alfabeto in forma di lettere dipinte in vari colori per giocare a carte» (Stefano Torselli, Carte da gioco educative). Sarebbe poi stata la volta di un frate francescano strasbughese, Thomas Murner (1475 ca.-1537), che inventò carte pedagogiche per l’insegnamento della filosofia e del diritto romano destinate ai suoi allievi delle università di Friburgo e di Cracovia, e dell’abate Claude Oronce Finé de Brianville (1608-1674), con il suo gioco sulle armi d’Europa per l’insegnamento dell’araldica (ibid.).

Nate dunque con il compito di istruire divertendo, le figurine hanno in molti casi mantenuto questa funzione fino ai giorni nostri. Meno raffinate, ma senz’altro più redditizie, quelle del geniale imprenditore francese cui si deve la nascita del primo modello di grande magazzino in un’ottica moderna: Aristide Boucicaut (1810-1877).

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Fra commercio e propaganda

Boucicaut fu il primo a intuire le potenzialità commerciali del gioco, sfruttando il retro delle figurine per stamparvi sopra messaggi pubblicitari: quelle della prima serie distribuita nel suo Au Bon Marché (1867) venivano regalate ogni giovedì ai bambini, giorno di chiusura delle scuole francesi. Le figurine di Boucicaut erano a colori, e vi erano disegnati uccelli, pesci, costumi, città, cattedrali e decine di altri soggetti. Grandi e piccini facevano di tutto per poter rimpinguare la propria collezione, e le cronache del tempo narrano che l’intuizione fruttò al geniale imprenditore la cifra esorbitante di venti milioni di franchi d’oro l’anno. Sarebbero poi venute le “figurine delle sedie”: ne erano sufficienti un paio per poter affittare una sedia a sdraio nei parchi parigini.

Ma le figurine non furono sempre ben viste. Alla fine dell’Ottocento, in Svizzera, si contestò a Jean Tobler (1830-1905) il costo del passatempo e la promessa di corrispondere 10 franchi svizzeri a chiunque ne avesse completato la raccolta. Tobler, che negli anni Sessanta aveva aperto a Berna la sua prima cioccolateria, «rifiutò di prendere misure in proposito e venne accusat[o] di frode: alcune figurine non si trovavano mai e si sospettava che addirittura non esistessero. Tobler ammise che certe erano stampate in numeri ridotti […] [e] [l]a disputa arrivò in tribunale; Tobler venne assolto dall’accusa di frode poiché poté provare che alcuni premi erano stati effettivamente pagati ma, a sorpresa, fu condannato per conduzione illegale di lotterie e fu costretto ad abbandonare le figurine» (Paola Basile, a cura di, Il museo della figurina. Dagli antecedenti alla figurina moderna, con la collaborazione di Thelma Gramolelli, Modena, Panini, 2014, p. 55).

modena, panini

Più tardi sarebbe stata la Germania nazista a sfruttare le potenzialità comunicative delle figurine, mettendone in circolazione numerosi album propagandistici rivolti ai fumatori: i Zigaretten Album. Il nazionalsocialismo poté così «subdolamente entrare nelle case dei tedeschi attraverso piccole miniature colorate, volte a plasmare fin dalla tenera età il perfetto ariano» (ibid., p. 60 sg.).

Il resto alla prossima puntata.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Le figurine introvabili: dal Saladino a Pizzaballa

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Tutti pazzi per le figurine

figurine-quattro-moschettieriIn Italia, sebbene fossero state diffuse figurine a scopi commerciali fin dall’inizio del secolo, il boom del collezionismo si ebbe soltanto nel corso degli anni Trenta del Novecento, grazie a un concorso promosso nel 1936 dalla Perugina e dalla Buitoni e collegato a una fortunatissima trasmissione radiofonica di Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, un radiosceneggiato che faceva comicamente il verso a Dumas e ai suoi tre famosi schermidori: I Quattro Moschettieri (1934-1937).

L’iniziativa mise in palio vari premi (un libro illustrato ispirato alla trasmissione; confezioni di pasta assortita; scatole di cacao, mandorle, cioccolatini o caramelle) per chi fosse riuscito nell’impresa di completare un album delle figurine litografate a colori da raccogliere, disegnate dal fumettista Angelo Bioletto. Il premio più ambito, per chi ne avesse riempiti 150, era quella Fiat 500 Topolino, lanciata nel 1936 e uscita di produzione nel 1955, che si sarebbe impressa indelebilmente nell’immaginario collettivo.le-figurine-3bis

Per i partecipanti al concorso il nemico aveva un nome ben preciso: il feroce Saladino. Sulla figurina che lo ritraeva, pressoché introvabile, fu montato un vero e proprio caso; la sua rarità, per Bioletto, era stata l’effetto di una “consapevole tattica distributiva della Buitoni; secondo altri la causa era da ricercarsi nel clamoroso ritardo nella consegna delle bozze proprio dall’artista” (cfr. Paola Basile, a cura di, Il museo della figurina. Dagli antecedenti alla figurina moderna, con la collaborazione di Thelma Gramolelli, Modena, Panini, 2014, p. 75).

La febbre delle figurine colpì tutto il paese, al punto da produrre “borsini, stamperie illegali e circoli di scambisti. Pare che a Roma un orefice accettasse album completi come pagamento e a Nettuno i biglietti potevano essere barattati con le figurine” (ibid.). Nel 1937 approdò alle sale cinematografiche un film di Mario Bonnard. Il titolo? Il feroce Saladino.

bonaventura1A tutto questo il regime fascista volle porre fine, in quel medesimo 1937, cancellando a un tempo programma e concorso, anche per gli eccessi di consumismo e il coro di proteste sollevato dalla concorrenza. Sulla scia dell’iniziativa Buitoni-Barilla si sarebbero messe però altre realtà imprenditoriali. Fra queste la Barilla, che, sempre nel 1937, lanciò il “Concorso Bonaventura”. Per partecipare bisognava completare l’album con 50 esemplari diversi, stampati e messi in circolazione negli stessi quantitativi, come espresso a chiare lettere nel regolamento. Un valore aggiunto ribadito, sulla copertina dell’album, dalla scritta sul cartello in bocca al cane del signor Bonaventura: «nessuna figurina rara».

Un decreto del Ministero delle Corporazioni, emesso il 10 novembre 1937, vietò alla fine tutti i concorsi che prevedevano la presenza di figurine.

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Il dopoguerra e le Panini

A traghettare l’Italia verso una nuova fase, quella della figurina moderna, fu la casa editrice milanese Nannina, fondata il 2 aprile 1947, con i suoi soggetti sportivi (dal calcio al ciclismo). A imprimere la vera svolta al genere è stato però Lotario Vecchi, fondatore (1949) di un’altra casa editrice di Milano: la Astra. Il suo Albo per figurine di animali di tutto il mondo è il primo album italiano di figurine a poter essere acquistato in edicola.

Nel 1960 nascono le figurine Panini. Impossibile qui anche solo riassumere le vicende delle serie dei mitici calciatori, ma due di loro meritano almeno una menzione speciale.

Il primo è Carlo Parola, l’autore della rovesciata che, dal 1965, è diventata il marchio di fabbrica della raccolta.

Il secondo è un altro presunto introvabile, il portiere Pier Luigi Pizzaballa, ricordato per essere stato la prima figurina dell’album quando militava nell’Atalanta, prima squadra in ordine alfabetico in serie A […]. La leggenda vuole che all’inizio della stagione ’63-’64 fosse assente il giorno in cui il fotografo della Panini si presentò al campo d’allenamento. Nella realtà sembra invece che l’immagine non sia mai stata introvabile, anche per una legge che vietava le figurine rare” (cfr. Paola Basile, a cura di, Il museo della figurina, cit. p. 183).

Le figurine rare: quasi storie d’altri tempi. Perché oggi, in rete, troviamo praticamente tutto.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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‘Twittabolario’ per tutti…tutti per il ‘Twittabolario’!

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Cresce giorno dopo giorno il Twittabolario, il dizionario di vocaboli e significati inventati di cui abbiamo già parlato su questo blog. L’iniziativa, frutto del gemellaggio tra la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno e il Futura Festival di Civitanova Marche, nasce in collaborazione con la comunità che si raccoglie intorno alle Scritture Brevi, fondata e gestita da Francesca Chiusaroli. Si è ultimamente aggiunta al gruppo Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta inedita di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana pianta) da cui sono tratti gli esempi seguenti:

Affrancàuto agg. • Relativo a persona che, liberatasi dell’automobile, riscopre il piacere di camminare a piedi (Mirella M.P. Grillo).

Azzeccazàzzere s. m. • Parrucchiere capace di accontentare le richieste delle proprie clienti realizzando il taglio di capelli desiderato (Mariarosaria Esposito).

Ballucinògeno agg. • Sostanza che agisce sul sistema nervoso centrale producendo alterazioni percettive della realtà che inducono alla menzogna (Cristina Maria Russo).

Blablagìsmo s. m. • Effetto collaterale indotto dall’abuso di Facebook, consistente nel bisogno compulsivo di condividere pensieri frivoli ed effimeri (Alessandra Stabile).

Bugìvera s. f. • Bugia che è anche una verità o verità che è anche una bugia. Nella religione cattolica è considerata peccato veniale, in politica una virtù (Ferdinando Gaeta).

Cremlìno s. m. • Grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia (Marco Fulvio Barozzi).

Enrigolètto s. m. • Individuo che ricorda la tragica vicenda di Rigoletto, il buffone vittima del destino e dei capricci dei potenti (Marco Fulvio Barozzi).

Pertinente agg. e s. m. • Che si riferisce all’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, chi ne imita le parole o i gesti (Marco Fulvio Barozzi).

Whatsappatóre s. m. • Chi adopera certe applicazioni di computer e telefoni cellulari in maniera rozza o imprecisa (Maurizio De Angelis).

Una giuria premierà con una dotazione in dizionari della lingua italiana i più creativi fra gli inventori di neologismi lessicali e semantici che avranno fatto pervenire le loro proposte. La premiazione dei tweet migliori avverrà all’interno del Futura Festival (24 luglio-2 agosto), in un evento organizzato insieme a Scritture brevi.
Giocate con noi!

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Dante Alighieri e la sua ossessione per i numeri

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Il sommo poeta che gioca coi numeri (I):

Giocabolario“Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque”.

È un brano tratto dal trentatreesimo canto del Purgatorio (vv. 37-45). “Non rimarrà per sempre (tutto tempo) senza erede l’aquila (aguglia) che ha lasciato le penne sul carro [della Chiesa], divenuto per questo mostro e quindi preda” [Purg. XXXII, 142 sgg.], scrive Dante, “perché io vedo chiaramente, e perciò lo racconto, stelle già vicine a consegnarci (darne) un tempo, incuranti (secure) di ogni intoppo e di ogni sbarramento (sbarro), nel quale un cinquecentoquindici, messaggero di Dio, ucciderà la meretrice (fuia) e quel gigante che con lei delinque”.

È ben nota l’ossessione di Dante per i numeri, strutturata in un sistema di stratificati e pregnanti valori simbolici. Questi valori, dalla Vita nova alla Commedia, si ramificano, s’infittiscono, si compenetrano d’una maggior forza d’insieme. Alcuni sono più palesi; altri, sottili o sottilissimi, muovono a una tripla lettura, orizzontale, verticale, incrociata. La Commedia si fa così, ripetutamente, da testo tramato in superficie, sottotesto e pretesto, intertesto e ipertesto; il primo grande ipertesto, anzi, della storia della letteratura occidentale, che duplica ma senza realmente occultare.

DanteQuando il poeta mette in guardia il lettore, quando lo avverte che, se vuol realmente capire, dovrà andare a fondo, il lettore non può perciò sottrarsi e deve raccogliere la sfida. Dante, che l’aveva già messo alla prova in Inf. IX, 61-63 (“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”), in Purg. VIII, 19-21 (“Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / che ’l velo è ora ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggero”) e in Purg. IX, 70-72 (“Lettor, tu vedi ben com’io innalzo / la mia matera, e però con più arte  / non ti maravigliar s’io la rincalzo”), lo fa ancora qui, subito dopo quel «cinquecento diece e cinque» che ha messo in difficoltà gli interpreti danteschi di ogni epoca e scuola: “E forse che la mia narrazion buia, / qual Temi e Sfinge, men ti persuade, / perch’a lor modo lo ‘ntelletto attuia;  / ma tosto fier li fatti le Naiade,  che solveranno questo enigma forte / sanza danno di pecore o di biade” (vv. 46-51).  Forse il mio oscuro racconto ti convince poco perché ottunde (attuia) l’intelletto, dice Dante, come i racconti di Temi e della Sfinge; presto saranno però i fatti a svolgere il ruolo che fu delle Naiadi, risolvendo questo arduo enigma senza perdita di pecore o di biade. In realtà le Naiadi, ninfe dei fiumi, non scioglievano enigmi: il poeta scambia qui Naiade per Laiade, cioè per quell’Edipo (figlio di Laio) che aveva risolto l’indovinello della Sfinge, posta a guardia dell’ingresso alla città di Tebe e suicidatasi dopo l’impresa dell’eroe. Le pecore perdute sono quelle divorate dalla fiera inviata nella città greca da Temi, dea della giustizia, erroneamente identificata da Dante con una inesistente profetessa autrice di enigmi, sdegnata dal fatto che le Naiadi riuscissero a decifrare i suoi criptici oracoli; del popolo tebano la dea Temi, per vendicare la morte della Sfinge, aveva anche distrutto i pascoli.

Torniamo al «cinquecento diece e cinque». Attribuendo ai tre numeri la lettera latina corrispondente (cinquecento = D; dieci = X; cinque = V) si ottiene la parola DXV. Intesa da alcuni come una sigla, per Domini Xristi Vicarius («vicario del signore Gesù Cristo»), Domini Xristi Vertagus («levriero del signore Gesù Cristo»), Dei Xristi Verbum, ecc., è stata riletta da molti come DVX, e cioè DUX; saremmo così tecnicamente di fronte a una ipsosefia, quel fenomeno che vede un valore numerico per l’appunto abbinato a due diverse sequenze di caratteri. Con un ragionamento analogo si potrebbe attribuire il valore numerico 1 e rileggerlo come I, come già fece Gabriele Rossetti, all’articolo indeterminativo che precede “cinquecento diece e cinque”, e poi disporre in un diverso ordine le cifre che compongono la sequenza risultante:1 (I) + 500 (D) + 10 (X) + e (E) + 5 (V) –> IDXEV –>  IVDEX –> IUDEX.
Ma chi è il messaggero divino celato sotto il «cinquecento dieci e cinque»? Lo scopriremo alla prossima puntata.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Dante Alighieri e la sua ossessione per i numeri – parte II

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Chi è dunque il messaggero divino celato sotto il “cinquecento dieci e cinque (v. 43) del XXXIII canto del Purgatorio? Si tratta, dato il riferimento al simbolo imperiale dell’aquila, di Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo (1275-1313), alla guida del Sacro Romano Impero dal 1312?
Che il futuro salvatore della Chiesa sia da identificarsi con lui è una semplice ipotesi, e nemmeno così convincente.

Non basta a suffragarla il tentativo di uno studioso, Edward Moore, di far corrispondere il nome Arrico, considerandone il valore gematrico, al numero 515. La gematria (o ghematria) è il sistema numerologico di tradizione cabalistica che consente di associare un numero a ognuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico; aleph (A) vale 1, resh (R) vale 200, yod (I) vale 10, a’ayin (O) vale 70, laddove cinque di quelle 22 lettere hanno due diverse forme, e altrettanti valori numerici, se occupano la posizione finale oppure no: kaph (= 20; = 500); mem (= 40; = 600); nun (= 50; = 700); pe (= 80; = 800); tzaddi (= 90; = 900).

Moore, ipotizzando che Dante non sapesse quale numero la cabala abbinasse alla O, ha pensato che il Poeta avrebbe potuto assegnare alla lettera il 4 perché quarta vocale dell’alfabeto latino; la somma da calcolare sarebbe perciò 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 10 (I) + 100 (C = Q) + 4 (O) (= 515), e la C sarebbe stata fatta corrispondere non a K (kaph), bensì a Q (qoph; valore cabalistico 100), per la prossimità o identità dei valori fonetici di queste due lettere. Una seconda possibilità, contemplata dallo stesso Moore, ha posto alla base del calcolo Arrico VII, immaginando che Dante, conscio dell’assenza delle vocali in ebraico, abbia attribuito alle cinque vocali latine i numeri da 1 a 5 (A =1, E = 2, I = 3, O = 4, U = 5) e considerato nella somma generale il numero 7, corrispondente all’ordinale dell’imperatore tedesco: 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 3 (I) + 4 (O) + 7 (= 515).

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La spiegazione del “cinquecento diece e cinque”, in un canto che attinge all’Apocalisse del celebre 666, il numero della bestia (“Sappi che ‘l vaso che ‘l serpente ruppe, / fu e non è”, vv. 34-35; “Et bestia, quae erat et non est“, Apc., 17, 11), va senz’altro ricercata all’interno della gematria. Bisogna però partire dalla sua applicazione all’alfabeto latino, che assegna 1 ad A, 2 a B, 3 a C, 4 a D, 5 a E, 6 a F, 7 a G, 8 a H, 10 a K, 11 a L, 12 a M, 13 a N, 14 a O, 15 a P, 16 a Q, 17 a R, 18 a S, 19 a T, 21 a Z; non ci sono W, Y, X, mentre I, J e U, V hanno uno stesso valore: rispettivamente 9 e 20.

La profezia di Purg. XXXIII, 37-45, ha forti legami con Par. XVIII, 73 sgg. Qui Dante, appena salito al cielo di Giove, descrive il movimento delle luminose anime dei giusti e le lettere che, volando e cantando, disegnano nell’aria; ne appaiono inizialmente 3 (D, I, L), che diventeranno alla fine 35 e comporranno 5 parole: “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. Se fosse allora Dante il “cinquecento diece e cinque”, se fosse lui l’inviato di Dio dell’ultimo canto del Purgatorio? I riscontri non mancherebbero, a partire dalle 5 parole appena riportate.

Non può sfuggire la relazione fra le prime tre lettere (Dil) del versetto di apertura del Libro della Sapienza (“Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”), equivalenti ad altrettanti numeri romani (D = 500, I = 1, L = 50), e il “cinquecento diece e cinque” (500 = D; 10 = X; 5 = V): se consideriamo la sola prima cifra (in entrambi i casi 5) del primo e del terzo dei numeri che formano Dil, e la componiamo con l’1 corrispondente alla I, otteniamo 515 (come osservò Vinassa de Regny). Quel “cinque volte sette” fa poi 35, quasi l’età di Dante al momento del viaggio, e le 35 lettere di Diligite iustitiam qui iudicatis terram alludono a due aspetti fondamentali per l’autore della Commedia: l’amore per la giustizia e il suo inappellabile giudizio su buoni, cattivi e penitenti. E non è tutto.

Il cielo di Giove, da cui dipende l’esercizio della giustizia in terra, è il sesto del Paradiso, e il numero 6 simboleggia l’ordine e la stessa giustizia. Nel IV canto dell’Inferno Dante si dichiara “sesto fra cotanto senno” (v. 102), attribuendosi l’invidiabile privilegio di potersi considerare ultimo, certo, ma dopo i più grandi poeti classici (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio). Con riferimento a loro aveva detto, al verso precedente, “sì mi fecer de la loro schiera”. Ed è il cinquecentoquindicesimo verso del poema.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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‘Marò Slug’, come ti faccio evadere Latorre e Girone

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Marò Slug è un videogame realizzato da due giovani sviluppatori italiani, Antonio Del Maestro ed Emiliano Negri (nella foto) che gioca a riportare a casa Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, facendoli evadere da una prigione indiana. Il videogame è ispirato a Metal Slug, che fece furore nelle sale giochi a cavallo fra anni novanta e terzo millennio. A differenza della versione originaria, targata SNK Playmore come la rivisitazione, la scelta dei personaggi si limita però a Big Round (Girone) e The Tower (Latorre).

I due si fanno largo a colpi di mitra tra un’infinità di indiani seminudi decisi a rispedirli in gattabuia; fanno da sfondo alle imprese dei due fucilieri un sottomarino arenato, che mostra la scritta “Ridateceli”, e l’inno di Mameli. Al suo lancio il videogioco, duramente attaccato da più parti, è stato preso d’assalto dal popolo della rete. Il sito predisposto ha superato quota 300mila giocatori in soli quattro giorni, ed è anche nulla al confronto dell’eco suscitata dal videogame sul web. Qui le cifre, grazie anche alla spinta dei social network, sono da capogiro.

Abbiamo fatto qualche domanda ai due giovani “creativi”, anche per capire un po’ di più delle loro reali intenzioni.

Vi aspettavate questo successo?
Eravamo certi che il gioco avrebbe funzionato, ma non ci aspettavamo i risultati ottenuti. Su Facebook le condivisioni sono arrivate a 33mila e su Twitter l’hashtag #MaroSlug ha raggiunto una portata potenziale di 1,5 milioni di utenti; numeri cui bisogna aggiungere le oltre 75.000 notizie giornalistiche che hanno parlato del gioco. Un risultato, già di per sé straordinario, che deve in più tener conto della trasversalità dei soggetti che hanno fatto di Marò Slug oggetto della loro attenzione.

Numeri importanti che non vi hanno però fruttato nulla, data l’assenza di pubblicità sul sito. Quantifichiamo i mancati introiti?
Abbiamo deciso di non guadagnarci per due motivi: il primo di ordine etico, perché non vogliamo lucrare sulla vicenda; il secondo di ordine più meramente tecnico, perché i diritti d’autore sulla grafica del gioco appartengono alla SNK Playmore. In 48 ore, comunque, potevamo guadagnare quanto avremmo guadagnato in diversi mesi di lavoro da precari.

Con il successo, però, sono arrivate anche le critiche…
Eravamo sicuri di alcune prese di posizione di esponenti del mondo politico (da Elio Vito a Ignazio La Russa), ma l’interessamento del governo non era nei nostri calcoli.

Un interessamento che avrebbe potuto portare alla messa al bando del videogioco, come caldeggiato da Domenico Rossi, sottosegretario alla Difesa, che l’ha definito un’“operazione speculativa”
La sensazione è che si sia voluto prendere il videogioco a pretesto per poter dire qualcosa sulla vicenda dei marò. Diversamente, se ci fosse stato un intervento “serio” del Governo, il gioco sarebbe stato rimosso o oscurato in pochissimi minuti. Marò Slug, in ogni caso, è un videogioco e nient’altro. Facendo i dovuti distinguo, molti di quelli che si sono a suo tempo schierati con Charlie Hebdo per difendere la libertà di espressione oggi sembrano aver dimenticato quella loro scelta.

Abbiamo letto che il gioco è stato sviluppato in soli due giorni. È l’ennesima leggenda sui videogame?
Più esattamente in un giorno e mezzo. L’idea l’avevamo sviluppata un paio di settimane prima, ma abbiamo cominciato a lavorare in concreto a Marò Slug il 18 agosto e, nel pomeriggio del giorno seguente, il gioco era già on-line.

Nel videogioco i due marò evadono dalla prigione e imbracciano i fucili per tornare a casa. È una metafora per lasciar intendere che Latorre e Girone, in questa vicenda, devono cavarsela da soli?
Che abbiano un fucile in mano e scappino è funzionale alla meccanica del videogame, non c’è alcun messaggio nascosto a sostegno di soluzioni fuorilegge. Volevamo semmai fare uno sberleffo ai media e ai politici che hanno più volte sfruttato il tema dei marò per guadagnare utenti e ottenere consensi.

Il vostro videogioco è solo politicamente scorretto o pensate di aver dato voce a un sentimento diffuso tra gli italiani? E, comunque, non è un gioco un po’ pericoloso?
Da tempo la rete fa dell’umorismo sulla vicenda dei marò, senza per questo voler ridicolizzare i due militari italiani. Marò Slug si colloca sulla stessa scia. Non sarà politicamente corretto, d’accordo, ma ciò che è importante è che molti hanno capito e condiviso il contenuto di fondo del nostro messaggio. In rete si può (ancora) scherzare, su argomenti spinosi o spinosissimi, senza per questo dover assumere posizioni precise, e c’è una sufficiente consapevolezza che, in casi del genere, non si vuol far male a nessuno. Sui media tradizionali questo è molto più difficile, le cose vengono prese con troppa serietà e, fra una dietrologia e l’altra, si cercano spesso capri espiatori per poter sostenere tesi preconfezionate.

Per il prossimo videogame avete già in mente qualcosa?
Al momento no, ma non mancheranno certo occasioni per ricavare materia da altri eventi di cronaca.

Ma, alla fine, qual è il vostro giudizio sulla vicenda dei due fucilieri?
Non ci schieriamo. Siamo consapevoli di quanto sia delicata la situazione ma, allo stessso tempo, siamo convinti che la vicenda poteva essere gestita meglio dalle autorità italiane.

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“Call Of Salveenee”: Matteo Salvini, i marò e le ruspe

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Un vecchio trucco, ma in questo scorcio d’estate sembra essere divenuto particolarmente attrattivo se lo scopo è di ottenere una facile visibilità sui media e, magari, innescare polemiche sul nulla. Si realizza un videogioco su un caso scottante che appassiona e divide l’opinione pubblica, lo si lancia in rete e si aspetta che il popolo virtuale abbocchi e se ne faccia un caso nazionale. Con Marò Slug, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, due sviluppatori, Antonio Del Maestro e Emiliano Negri, hanno scelto di modificare il gameplay di Metal Slug per far evadere Salvatore Girone e Massimiliano Latorre da una prigione indiana e riportarli a casa. Un videogioco che ha sollevato un putiferio, anche perché rilasciato a pochi giorni dalla sentenza del Tribunale del Mare di Amburgo.

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Con Call Of Salveenee. Alla ricerca dei marò, inventato da un giovane laureato pisano in informatica, Marco Guzzo (in arte Alfieri), non siamo nemmeno al videogame: di concreto, fin qui, c’è solo un trailer di un paio di minuti (chi lo condivide riceverà una copia gratuita del gioco quando si renderà disponibile) con protagonista il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, in abito nero, camicia bianca e cravatta verde, impegnato a liberarli lui i due marò (lo scenario ricorda un po’ Halo e un po’ Doom). Per raggiungere il suo obiettivo il numero uno del Carroccio, di livello in livello, deve però accumulare un milione di like sulla “barra della popolarità” collegata a Facebook, e per giunta, a rendere più complicata l’operazione, deve spazzare via tirando ruspe i suoi nemici: Aziz (chissà poi perché non islamico, o islamista), Zingherello e Terrone. L’eroe può ricaricare l’energia perduta, all’interno di un checkpoint, pronunciando a gran voce frasi e a parole registrate fedelmente dai suoi comizi, con tanto di stemma della Lega Nord in fiamme tra le mani davanti a Emily Ratajkowski, modella e attrice amercana.

Il gioco, che di satirico, a dir la verità, ha ben poco, ha avuto il suo trampolino di lancio mediatico nell’europarlamentare leghista Gianluca Buonanno. Il sindaco di Borgosesia, nella web-trasmissione KlausCondicio, condotta da Klaus Davi, ha dichiarato: “È un incitamento all’odio verso il nostro segretario generale e visto che vengo denunciato ogni qualvolta che pronuncio la parola rom, ora denuncio chi trasforma un videogioco in un’arma di odio politico e razziale verso la Lega”. Buonanno, che ha annunciato querela contro Guzzo per la ragguardevole cifra di 500.000 euro, è quello delle ripetute sparate contro i rom e contro i gay; quello che ha dichiarato di voler mettere del “filo spinato elettrificato” tutto intorno alla sua Borgosesia, “come si fa per i cinghiali”, per impedire il passaggio ai clandestini; quello che ha chiesto alla televisione pubblica di sospendere l’annunciatrice indiana di Rai 3, Sarita Agnes Rossi, che è peraltro cittadina italiana, perché il governo indiano “non solo si rifiuta di annullare le ridicole condanne a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma addirittura si rifiuta di riconsegnarci il Marò Salvatore Girone rimasto in India”.

Inutile entrare nel merito del dibattito. Da un lato i politici che fanno di giochi e videogiochi un capro espiatorio perché inciterebbero alla violenza, ma se fosse così le strade pullulerebbero di serial killer cresciuti a cartoon come Ken il guerriero; dall’altro gli autori che difendono le loro creazioni affermando che si tratta di mera finzione: l’ideatore di Call Of Salveenee, nel corso della puntata del 26 agosto scorso di In Onda, ha osservato che nella realtà è impossibile lanciare ruspe addosso a qualcuno e in ogni caso, nel suo videogame, non si versa una sola goccia di sangue. Guzzo ha intanto annunciato che i protagonisti dei suoi prossimi videogame potrebbero essere Matteo Renzi (lancerebbe 80 euro) e Beppe Grillo (combatterebbe i suoi avversari armato di stampanti 3d).

Non ci resta che attendere. Registriamo intanto, in quella puntata di In Onda, l’elencazione dei tre nemici virtuali del virtuale Salvini in questa forma: “uno zingarello, un negro e un terrone”. Avete letto bene: negro. Guzzo? No, anche perché un nero (leggi: afroamericano) nel suo videogame non c’è. Il triplice elenco è di David Parenzo, uno dei due conduttori della trasmissione targata La7.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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‘Pixels’ o steampunk? Dal passato al futuro

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Le possibilità per Pixels di entrare nella storia del cinema sono più o meno le stesse che una videocassetta spedita nello spazio, con le riprese di alcuni videogame della “golden age”, possa essere letta come una dichiarazione di guerra nei confronti di un popolo alieno. Un particolare del tutto ininfluente, in ogni caso, per quei bambinoni a cavallo degli “anta” che hanno orgogliosamente spedito la pellicola diretta da Chris Columbus in cima alle classifiche degli incassi, accrescendo il peso, con l’acquisto del biglietto, delle tonnellate di monetine già spese nelle sale giochi per difendere la terra dagli attacchi alieni o per salvare Pauline dalle grinfie di Donkey Kong.

I nostri innocui pixel, già rappresentanti di un’astronave, un panino o un nano da giardino, hanno scatenato l’ira funesta di un non meglio definito popolo extraterrestre che ha deciso di conquistare il nostro pianeta. Nell’assalto alla Terra non poteva mancare Pac-Man nell’inedito ruolo di un cattivo pronto a divorare la città di New York; il personaggio, nato dall’intuizione di Toru Iwatani (presente nel film) davanti a una pizza cui mancava uno spicchio, era nato con il nome di Puck-Man ma era poi stato ribattezzato Pac-Man, anche per evitare che, in bocca a qualche buontempone, potesse diventare Fuck-Man. A metter fine all’invasione, sconfiggendo il terribile capo della spedizione (proprio Donkey Kong), saranno i retrogamers che affideranno la missione decisiva a Jumpman, l’idraulico passato alla storia con il nome di Mario; un’impresa da affrontare salendo i piani di un palazzo in costruzione, ed evitando i vari oggetti lanciati dallo scimmione.

Se a cavallo degli anni Ottanta, con l’immaginazione, si poteva far diventare un quadratino un’astronave aliena, ce ne vuole davvero parecchia, di capacità immaginativa, per far sembrare Pixels un capolavoro. Molto meglio essersi goduti lo Steamfest, il festival steampunk che nella testaccina Eutropia, la “Città dell’Altra Economia”, ha riportato in auge in questi giorni a Roma l’epoca vittoriana. Gustatevi il video, e figuratevi anche voi un passato come non l’avete mai visto. Chiudete gli occhi e dimentichi di mirabolanti trucchi, e conseguenti effetti speciali, ripetete fra voi, come un mantra, il famosissimo slogan steampunk: “Come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima”.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Il cosplay e Ingress. Perché si avveri il sogno di diventare un supereroe

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C’è chi aspira a diventare un astronauta, chi una modella, chi un calciatore; almeno una volta nella vita, però, tutti abbiamo sognato di vestire i panni di un supereroe e, una volta assunte le sue fattezze, di poter compiere gesta straordinarie. Riuscire a coronare il primo sogno è abbastanza semplice: da diversi anni è scoppiata la moda dei cosplayers, con gli appassionati di tutto il mondo pronti a trasformarsi nei propri beniamini. Quant0 al secondo punto, riuscire a emulare le azioni dei propri eroi cimentandosi in imprese impossibili, ci si sta ancora lavorando ma si sono fatti ultimamente notevoli passi avanti grazie alla realtà aumentata. Un fenomeno, in continua espansione, che pare rappresentare il futuro più probabile dei videogame; l’augmented reality (Ar), nel trasformare sempre più gli smartphone in altrettanti lasciapassare per il mondo magico dei Live Action Role-Playing games (Larp), sganciando la giocabilità di un determinato titolo dal controller del giocatore, arriva a far vivere in prima persona, a quest’ultimo, l’esperienza ludica.

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Paradossalmente, grazie alla tecnologia dei cellulari “intelligenti”, si può tornare a essere bambini quando, con uno straccio a mo’ di mantello e un bastone come spada, ci si immergeva con la fantasia in lotte con draghi e orchi. Allo stesso tempo una fontanella o un negozio di un centro commerciale possono diventare portali da difendere a tutti i costi, e poco importa che non ti trovi a Gondor ma a Quartoggiaro: sei pur sempre un guardiano e fai parte di un esercito, molto meno virtuale di quanto ci si possa immaginare (e comunque, in ogni caso, assai meno violento di un esercito reale).

A dare una forte impronta in questo settore è stata la Niantic Labs, la software house che, nel 2012, ha lanciato Ingress, un gioco di strategia in tempo reale – e, per l’appunto, a realtà aumentata – che vanta ormai milioni di giocatori in tutto il mondo. Vi si possono indossare i panni di un agente della fazione degli Illuminati (Enlightened, fazione verde) o della Resistenza (Resistance, fazione blu). I primi sono favorevoli alla colonizzazione della Terra da parte di entità aliene (Shaper) per far evolvere il genere umano; i secondi sono più “tradizionalisti” e tentano di ostacolare in tutti i modi l’invasione extraterrestre.

Ma focalizziamoci ora sul meccanismo di gioco. Ingress si avvia con una serie di missioni di addestramento progettate appositamente per orientare i nuovi giocatori: nelle diverse città del mondo è possibile trovare “portali”, la cui funzione è quella di essere conquistati dalla fazione verde o da quella blu. Sono varie le modalità di interazione con un portale: si può decidere di hackerare – un’azione simile al check-in su Facebook o su Foursquare –, e in questo modo si ricevono oggetti utili per il proseguimento del gioco; si può voler ricaricare, attraverso la barra della vita dei resonators; si può infine conquistare, inserendo resonators collegati al portale. In Italia ogni zona o città ha il proprio gruppo di coordinamento, come gli Enlightened of Rome che, su Google +, raggiungono quasi un totale di 800 agenti. Ogni giorno giocatori da tutto il mondo camminano per chilometri e chilometri per raggiungere portali, allocati sul picco di una montagna o perfino su un’isola, soltanto per creare fields (coperte, nel gergo del gioco), collegamenti tra più portali che creano un trio di segmenti chiusi in cui la fazione avversaria non può creare link.

La Niantic Labs organizza anche eventi ufficiali in giro per il mondo: come Anomaly, cui possono partecipare agenti di qualsiasi livello, dalla semplice recluta al veterano con mille medaglie (di solito eventi del genere si organizzano prima di un raduno per definire il compito di ogni agente nel corso della missione da compiere, in modo da maturare una strategia ben definita e non farsi trovare impreparati di fronte agli avversari). La prossima Anomaly italiana si svolgerà a Milano il 12 dicembre (gli Illuminati hanno vinto le edizioni di Firenze, Bari, Milano, Cagliari e Roma, la Resistenza si è aggiudicata la sola “anomalia” di Palermo). Per ora si contano 7 milioni di agenti che giocano da 82 aree diverse, tra le quali la Groenlandia e le Hawaii (la passione per questo gioco può dunque oltrepassare le barriere naturali, consentendo di raggiungere isole in mezzo all’oceano o luoghi dal freddo glaciale).

Cosplayers, illuminati (ranocchie, per gli avversari) e resistenti (puffi, sempre per gli avversari) si sono dati appuntamento al Romics durante l’ultimo week end.

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di Massimo Arcangeli
Antonio Del Maestro
Sandro Mariani

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Giochi da tavolo: le misteriose origini della scopa e dello scopone

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La nascita della scopa e dello scopone, malgrado i tanti sforzi di appassionati e studiosi, è ancora avvolta nel mistero. Una recente ricostruzione della storia dello scopone è di Sergio A. Bonanni (La storia dello scopone: leggende e realtà per conoscere ed amare di più questo bellissimo gioco, Napoli, Figs, 2013); per raccontarne alcune vicende si fa qui riferimento a lui, a un volume curato da Enrico Malato (Chitarrella, Le regole del gioco del mediatore, del tressette e dello scopone, a cura di E. M., con una “Nota” di Gino Doria, Roma, Salerno, 1991) e a due articoli di Franco Pratesi (Scopone italianissimo, “L’Esopo”, n. 61, marzo 1994, pp. 65-77; La prima edizione di Chitarrella, “Journal of the International Playing-Card Society, XXVII/4, gen.-feb. 1999, pp. 166-172).

scopone(1)

La fig. 1 riproduce la seconda edizione di un’opera uscita a Milano nel 1937 (la princeps, irreperibile, è del 1932). Vi compare per la prima volta il testo latino sullo scopone, insieme a una versione napoletana e a una italiana, attribuito a un fantomatico monaco o prete partenopeo (ma per Pratesi si trattò di un laureato in legge); passato alla storia come Chitarrella, sarebbe vissuto fra la prima e la seconda metà del Settecento.

Il Chitarrella, nel giudizio infondato di molti, avrebbe così spiegato la scopa (o scopuncula) e lo scopone (magna scopa): “Scopo sic dicitur quia magna scopa; scopa enim vel scopuncula tribus chartis, scopo nove jocatur. Et scopa nomen accipit a puncto quod fit omnes chartas de tabula tollendo, quasi tabula verrendo” (Le regole dello scopone e del tressette, versione napoletana di Luigi Chiaruzzi [sic], nuova traduzione italiana di Edgardo Pellegrini, illustrazioni di Davide Danti, Bari, Dedalo, 1982, p. 8). E così avrebbe tradotto in napoletano il passo, un secolo dopo (1866), l’editore e libraio partenopeo Luigi Chiurazzi (1831-1926), la cui versione è la stessa contenuta nell’edizione milanese del 1937: “Lo scopone è chiamato accossì pecché è na scopa ngrannuta. La scopa, schiamata purzì scopetta, se joca co tre carte: lo scopone se joca co nove. E la scopa se annomena scopa pe lu fatto ca quanno chi joca tene lo punto arronza tutte le ccarte comme si scopasse la tavola” (Le regole dello scopone e del tressette, cit., p. 8).

Scopone(2)Nelle edizioni ottocentesche dell’opera attribuita a Chitarrella non si fa però il minimo cenno né allo scopa né allo scopone. A partire dalla prima di cui abbiamo notizia (fig. 2), nella quale al testo latino è affiancata, pagina dopo pagina, la traduzione italiana; il frontespizio recita: De regulis ludendi ac solvendi in Mediatore, et Tresseptem auctore Chitarrella. Delle regole di giocare e pagare nel Mediatore, e nel Tressette del signor Chitarrella, traduzione dal latino nel nostro idioma italico del sig. N. N. (Napoli, Tip. Cataneo, 1840).

Anche nel volume stampato nel 1866 dal Chiurazzi, le Revole de iocare e pavare lo Mediatore e Tressette dello sio Chitarella pe la primma vota Scopone(3)revotate a le[n]gua nosta da n’originale antico, e reportanno lo tiesto latino sotto ad ogne paggena. Co na jonta de lo juoco de la Primera, de l’Aseno, Mercante, Zecchinetto e Briscola Riale […], di scopone non si parla proprio. Vi è un solo, brevissimo accenno alla scopa: “Nome di un giuoco e segno di un punto al medesimo. Scopa” (p. 51).

Nel 1855 era intanto uscito il primo manuale a noi noto sullo scopone: fu pubblicato anonimo (Del giuoco dello scopone, Napoli, Stabilimento Tip. di G. Nobile), ma sappiamo essere stato scritto da un Antonio Capecelatro “alto funzionario statale e direttore di giornale” (Pratesi 1994, Scopone italianissimo, cit.).

Nel 1895 anche il Chiurazzi avrebbe pubblicato un opuscoletto sullo scopone (fig. 4): Codice del giuoco dello scopone esposto in 134 rScopone(4)egole e 32 note illustrative che possono considerarsi altrettante regole da un vecchio giocatore. Uno scopone da giocarsi, vi sarebbe stato precisato, con le quattro carte messe in tavola all’avvio (p. 15) che ne contraddistinguono la versione “scientifica”; tanto scientifica, evidentemente, da mettere a dura prova le facoltà di un anziano: “Taluni dicono che lo Scopone sia giuoco da vecchi. Tutto il contrario, ci vogliono giovani di svegliato ingegno e di gagliarda memoria: forze che nei vecchi, tranne rare eccezioni, si vanno indebolendo con la materia” (p. 8 sg.).

Non tutti sarebbero d’accordo.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Mondiali Brasile 2014: storia di una maglia (azzurra)

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Quando il ciel di Milano si dipinse di blu 

Il 6 gennaio 2011 la maglia azzurra ha festeggiato il secolo. Fu indossata per la prima volta il 6 gennaio 1911, in un’amichevole giocata all’Arena Civica di una Milano innevata, davanti a circa 5.000 spettatori, contro l’Ungheria (che vinse di misura: 1 a 0). L’azzurro tendeva al celeste, e il colletto era quello d’una polo; i pantaloncini erano bianchi, i calzettoni neri rigati di bianco. Il 26 maggio 1910, alla sua seconda gara ufficiale, la Nazionale aveva perso a Budapest, ancora contro i fortissimi magiari, per 6 a 1; il 15 maggio 1910 aveva invece battuto la Francia, all’Arena Civica di Milano, con un altro punteggio tennistico (6 a 2).

Nei primi due incontri del 1910 l’Italia portava una maglia bianca, con appuntato un nastro tricolore. C’è chi ipotizza si fosse voluto riproporre il colore della casacca della Pro Vercelli (la squadra, al tempo, più forte). Un’altra teoria, più accreditata, sostiene che su quella scelta avesse pesato il fatto che non si fosse ancora deciso quale colore indossare; la preferenza per il bianco, insomma, sarebbe parsa l’opzione meno impegnativa. Dal bianco alla parentesi del nero: con la decisione di Mussolini, una prima volta nel 1935 (il 17 febbraio, per un’amichevole a Roma con la Francia), e poi nelle Olimpiadi del 1936 e nelle prime due gare dei mondiali del 1938, di far gareggiare i calciatori italiani in maglia nera; il colletto, nel frattempo, era diventato a V. In una partita disputata a Fiume il 7 febbraio 1920, contro una rappresentativa cittadina, i militari italiani volontari al seguito di Gabriele d’Annunzio, che l’aveva ideato, avevano esibito sulla maglia un bello scudo tricolore. 

Prêt à changer: parlano gli sponsor

Sull’azzurro, nel 1911, più che la neve – con cui, s’è pensato, si sarebbero altrimenti confuse le maglie dei giocatori – pesò l’omaggio al blu Savoia, un po’ più scuro del pervinca. Il Ventennio, allo stemma, aggiunge la corona e il fascio littorio. Cadono, l’una e l’altro, con la fine del regime e l’avvento della Repubblica, e lo scudo crociato sabaudo cede (la prima volta il 27 aprile 1947, in una partita giocata a Firenze con la Svizzera) a uno scontornato tricolore. La maglia resta azzurra, ma la sua foggia muta: il colletto non è più a V, e porta ora i laccetti; durerà poco, perché questi presto scompariranno e arriverà il girocollo.

Negli anni Cinquanta lo stemma si arricchisce della scritta ITALIA, riprodotta in lettere d’oro. Nel 1962 (mondiali cileni) via il girocollo, ricompare il colletto da polo. Nel 1966 (mondiali ‘coreani’) le casacche diventano due: una a V (maniche corte), una a girocollo (maniche lunghe); sarà così anche nelle partite di qualificazione agli Europei belgolandesi del 2000. Nel 1974, sul risvolto dei calzettoni (blu), si materializzano tre strisce bianche: sono le stesse del logo dell’Adidas, il primo sponsor tecnico della Nazionale. Nel 1982 ricompare sulla maglia il colletto alla polo, bordato – come le maniche – da una fettuccia tricolore. Un profilo a contrasto. Non più così nel 1992, con le piccole piramidi a gradoni che hanno al contempo sostituito le righe di dieci anni prima; agli Europei del 1996 le rifiniture tricolori scompaiono del tutto, e diventano d’un bel bianco e bronzo. Lo sponsor tecnico della Nazionale (dal 1995) è la Nike, che aveva all’inizio riproposto, per il bordo maglia, una fettuccia tricolore simile a quella della casacca del 1982.

Felini d’abbigliamento e nuove linee 

Il 2003 segna l’avvio della collaborazione con la tedesca Puma. Le maglie si personalizzano, anche se non sempre convincono. La più bella è quella indossata ai mondiali sudafricani (2010), solcata da righe bianche, somiglianti agli spallacci di un’armatura, che disegnavano quasi una S lungo le maniche e giungevano fin quasi alla base del collo.

In Brasile gli azzurri porteranno come maglia “da casa” una polo con collo a tre bottoni, filettata di bianco lungo i fianchi; sul bordo manica, ma non lo fascia per intero, il profilo tricolore a contrasto del modello indossato nel 1982. Bianca, e gessata in azzurro, la casacca “da trasferta”. Qui è azzurro anche il bordo manica, nemmeno in questo caso fasciato tutt’intorno. A far mostra del tricolore, per effetto del bianco interposto fra le due righe di diverso colore (verde e rosso), la doppia filettatura sui fianchi. A protezione, forse, di altri fianchi.

 

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I Mondiali di calcio nelle parole dei telecronisti

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Telecronache d’una vittoria annunciata   

Assist di Pirlo in area di rigore tedesca, sinistro di prima intenzione a girare e gol (un minuto dopo raddoppia Del Piero, che ribadirà l’accesso alla finale di Germania 2006). «Mio dio, mio dio, Fabio Grosso. Fabio. Fabio Grosso. Fabio Grosso. Fabio Grosso», il commento di Marco Civoli. Con l’incontenibile corsa di Marco Tardelli ai mondiali spagnoli del 1982 – il presidente Pertini s’alza in piedi, Nando Martellini scandirà tre volte «campioni del mondo» –, è uno dei ricordi più belli della storia calcistica italiana.

Grosso regalerà alla Nazionale, nel 2006, anche il quarto titolo mondiale, tirando il rigore decisivo nella finale contro i francesi. Ancora Civoli: «è finita. È finita. È finita. È finita. Il cielo è azzurro sopra Berlino. Siamo campioni del mondo». Gli fa (numerico) eco Fabio Caressa, su Sky: «Siamo campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo. Campioni del mondo. Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene, vogliamoci tanto bene».  

Più di trent’anni di mondiale in tv: Martellini e Pizzul

Bruno Pizzul esordisce, in terra messicana, nel 1986. Sostituisce Martellini, colpito da un malore provocato dall’altitudine, ma l’Italia sarà buttata fuori dalla Francia: «È finita. È finita la partita. Ed è finita anche l’avventura degli italiani, dei campioni del mondo, qui in Messico. I francesi vanno avanti, noi andiamo a casa». All’eliminazione in Messico (2 a 0) seguirà quella di Italia 1990, dopo l’errore dal dischetto di Aldo Serena: «L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo. […] Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare». A Usa 1994 è Roberto Baggio a sbagliare l’ultimo penalty, e Pizzul: «Alto. Il campionato del Mondo è finito, e lo vince il Brasile ai calci di rigore». Anche ai mondiali di Francia (1998) Pizzul racconta la telecronaca di una disfatta («è finita. La Francia va in semifinale. Una volta ancora i calci di rigore ci sono stati avversi»), e va ancor peggio quattro anni dopo: ai mondiali nippo-coreani ci castiga il “perugino” Ahn Jung-Hwan; realizza il golden gol, e l’«Italia è eliminata».

Sedici anni per Pizzul e altrettanti per il suo predecessore. Subentrato a Carosio a Messico 1970, a manifestazione già iniziata, Nando Martellini aveva concluso così la leggendaria semifinale vinta dagli azzurri (4 a 3) contro la Germania: «Telespettatori italiani, al termine di due ore di sofferenza e di gioia vi possiamo annunciare: l’Italia è in finale nella Coppa Rimet». Avrebbe raccontato la vittoria del’82 al Santiago Bernabéu dopo la sconfitta in un’altra semifinale, per mano dell’Olanda, ai mondiali argentini del 1978.

Fra radio e tv: Nicolo Carosio

La prima radiocronaca di una partita di calcio, Italia-Ungheria (4 a 3), è del 25 marzo 1928. La voce è di Giuseppe Sabelli Fioretti, allora poco più che ventenne, ma è Nicolò Carosio la prima grande voce radiofonica della Nazionale. La sua avventura ai mondiali ha inizio nel 1934, e prosegue nel 1938. Con la Seconda Guerra Mondiale si ferma tutto, si ricomincia dal Brasile (1950). Sugli azzurri c’è un grande entusiasmo, ma è subito spento dalla sconfitta subita, nella gara inaugurale, da una Svezia di dilettanti. «La nostra ansimante controffensiva inchioderà gli svedesi alla stretta difensiva», commenta Carosio l’assedio degli azzurri, alla ricerca del gol del pareggio. Toccherà ancora a lui raccontare l’eliminazione dai mondiali in Svizzera (1954), contro i padroni di casa («Abbiamo perduto, e torniamo a casa prima del tempo»), e il rissoso match contro i cileni nei mondiali seguenti, repertoriato fra le gare internazionali più fallose di sempre. «[Giorgio] Ferrini lascia il campo scortato dai carabinieri come un volgare scippatore da mercato rionale», osserva Carosio dopo l’espulsione del calciatore (stessa sorte per Mario David). Chiude lamentando le «occasioni sprecate con la Germania» e la «faziosità dell’arbitro» («ci hanno pagato il biglietto di ritorno»), ma il ritorno a casa è nulla al confronto dell’uscita dal mondiale inglese (1966) per mano dei nordcoreani, descritti prima della partita fatale da Ferruccio Valcareggi, vice di Edmondo Fabbri, come tanti «Ridolini del calcio».

Nicolò Carosio esce di scena dai mondiali, nel 1970, con la partita Italia-Israele. Si era espresso in modo infelice su Seyoun Tarekegn, guardalinee di nazionalità etiopica, dandogli per due volte dell’etiope. A difenderlo Enzo Tortora, in una lettera pubblicata sul “Resto del Carlino” e indirizzata al direttore generale della Rai: Ettore Bernabei.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Calcio balilla: piccolo, ma per piedi buoni

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Un misterioso inventore

calcio-balillaQuattro-quattro-due, tre-quattro-tre, tre-cinque-due. Moduli calcistici, ma il più giocato è il due-cinque-tre: quello del calcio balilla. Non si conosce con certezza l’inventore del calcetto (o calcino), ma forse si è andati per gradi: l’inglese Harold S. Thornton l’avrebbe brevettato il 14 ottobre 1922; l’ingegnere francese Lucien Rosengart, allora operaio alla Citroën, ne avrebbe realizzata ancor prima una rudimentale versione; il tedesco Broto Wachter, intorno al 1930, l’avrebbe perfezionato; il galiziano Alejandro Campos Ramirez (in arte Alejandro Finisterre), fra il 1936 e il 1937, avrebbe ideato le sagome dei calciatori. C’è anche chi ha pensato a un’invenzione americana del tempo della Grande Guerra – il baby-foot sarebbe servito a rieducare i soldati che avevano riportato ferite alle mani –, chi a un tal svizzero (Mr Kicker) che ne avrebbe poi tratto i proventi per l’apertura di una società. calcio-balilla

Un passatempo di lusso

Se un classico del calcio balilla è la “bomba” sparata dalla mediana, per il portiere è difficile resistere alla tentazione d’insaccare a sua volta nella porta avversaria con una staffilata; un’impresa che può costar cara qualora un attaccante, che si trovi sulla traiettoria della pallina, risponda al tiro con un umiliante flash (o foto). A bigliardino (o biliardino), è risaputo, non si fan girellare le stecche, ma bandita dal gioco è altresì la manicciola (o cigno), il tiro di prima intenzione del mediano centrale, con la palla appena messa in gioco. Lo stesso dicasi, nel regolamento italiano (“tradizionale”), per il gancio, con la pallina che transita da un omino all’altro (sulla stessa stecca) senza passar per la sponda. Le quotazioni di un giocatore s’impennano con il tre-cinque (o pipe, o pistola), il retropassaggio dall’attaccante al mediano seguito da un violento tiro in porta. La versione difensiva (higuita) vede protagonisti un difensore e il portiere; nel tre-uno, invece, la pallina passa dall’attaccante al portiere (che tira). Di grande impatto la tigre (o civetta), tiro in diagonale scagliato dalla difesa verso la porta avversaria. Un capolavoro balistico, se il felino è bianco; la pallina atterra, riparte e infila l’estremo difensore.

Tante le gare disputate fra personaggi famosi, come quelle inscenate da PelèMaradona e Zidane in una campagna Vuitton per il lancio di un biliardino d’eccezione con manopole in pelle bianca e omini brandizzati. Straordinario anche il Gold Lux Football Table, rifinito in oro (prezzo: oltre 25.000 mila dollari) o VIP Kicker (18.000 euro): gambe in acciaio rodiato, ometti (o omini, o pupi) placcati in oro e argento, vetro in cristallo infrangibile e pallina rivestita di cristalli Swarovski. Il “cappotto”, che imporrebbe agli sconfitti di passare sotto le forche caudine (il biliardino, of course), appare meno umiliante con oggetti del genere sopra la propria testa.

Volano sassi, anziché palline

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La storia del Balilla – qui è il personaggio – è stata ben ricostruita in due contributi recenti, di Luigi Peirone (Da “balla” a “Balilla”, in Id., Parola e testo, Firenze, 2003, pp. 13-16) e di Rocco Luigi Nichil (Balilla, in Itabolario. L’Italia unita in 150 parole, a cura di Massimo Arcangeli, Roma 2011, pp. 145-148).

Genova, 5 dicembre 1746. Un ragazzo del quartiere di Portoria tira un sasso a un ufficiale tedesco, che aveva preso a colpi di bastone un genovese, e scatena i rivoltosi contro gli occupanti (austro-piemontesi). Sarebbe passato alla storia proprio con il nomignolo di Balilla, un soprannone già presente in un’opera scenica stampata – sempre a Genova – alla fine del Seicento. Un secolo dopo, in pieno clima risorgimentale, quel ragazzo sarebbe diventato un simbolo: il genovese Mameli, nella prima versione (settembre 1847) del suo celebre inno, il Canto degli Italiani, lo avrebbe immortalato così: «i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò» (vv. 38-41). Quasi due secoli dopo la rivolta genovese, con la Legge n. 2247 (3 aprile 1926), presentata – e disegnata – da Mussolini in persona, sarebbe nata l’Opera Nazionale Balilla (ONB); il 24 settembre 1922, in un discorso pubblico in quel di Cremona, il Duce si era così rivolto ai presenti: «Principi! Triari! Avanguardisti! Balilla! Donne fasciste!».

Gli anni Trenta avrebbero salutato l’esordio della radio Balilla –  una radiolina economica – e della mitica Fiat 508 Balilla (1932). Un’altra botte piccola, ma dal vino buono.  

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Subbuteo: come un falco che piomba sulla preda

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Un approccio al gioco del calcio – oggi lo definiremmo vintage, ma era frutto d’un certo romanticismo – che ha segnato, fra gli anni Sessanta e Settanta, un’intera generazione; cresciuta a “pane e Subbuteo”, non sarebbe mai scesa a compromessi con l’odierno mondo virtuale. Un fenomeno di massa che, di là dai magici colpi in “punta di dito” portati alla semisferica base del calciatorino, per farlo impattare su una palla sovradimensionata, ha manifestato tutti i sintomi di un vero e proprio rito.

subbuteo

In Italia quel rito si è consumato a partire dal 1973. Nel 1974 un genovese, Stefano Beverini (campione d’Italia dal 1974 al 1977), si sarebbe classificato al terzo posto ai mondiali di Monaco di Baviera; a gareggiare, alla Haus International della città bavarese, anche due fuoriclasse: l’inglese Mike Dent e l’olandese Dick Rietveld. Il giocatore italiano avrebbe raccontato quell’avventura, insieme a molto altro, nel 1980, in un libro accompagnato da una mini-prefazione di Italo Cucci: Panno verde Subbuteo. Io, Beverini…  La cronaca, la tecnica, la strategia, le astuzie e i segreti di gioco del calcio «a punta di dito» del primo «asso» del Subbuteo italiano […].

 

Palloni mondiali. Da tavolo, ma sono pur rotondi

Il Subbuteo, dopo l’incetta di proseliti negli anni d’oro, oggi annaspa. A snobbarlo sono soprattutto i giovani modernizzati e digitalizzati, attirati dall’iperrealismo dei videogame ben più che da marionettistici figurini ciondolanti, ed è un vero peccato. Perché gli azzurri del subbuteo scrivono pagine memorabili fin dal lontano 1978: s’era allora imposto sul tedesco occidentale Dirk Barwäld, nella categoria juniores, Andrea Piccaluga. Nel 1982, su un altro tedesco occidentale (Horst Becker), avrebbe avuto la meglio Renzo Frignani: aveva potuto approfittare della «più importante innovazione del Subbuteo da competizione: assicurarsi un ottimo scivolamento dei pezzi spruzzandone la base con cera per mobili spray o altro lucidatore» (Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti, Dizionario dei giochi […], Bologna 2010, s. v. Subbuteo). L’artefice? Beverini.   

Nell’attesa dei prossimi campionati del mondo, che si disputeranno a Rochefort (Belgio) il 6 e 7 settembre prossimi, a parlare in favore di una tradizione di ripetuti successi è il lauto bottino portato via a Madrid l’anno scorso: 14 medaglie (9 ori, 1 argento, 4 bronzi); nel 2012, a Manchester, erano state 8 (5 ori, 1 argento, 2 bronzi). E se il futuro ct della Nazionale, per rifondare la squadra, dovrà superare non poche difficoltà, i due selezionatori della Federazione Italiana Sport Calcio Tavolo (Fisct), Marco Lamberti e Alfredo Palmieri, hanno avuto il problema opposto: l’imbarazzo della scelta.

All’inizio fu un ornitologo

newfootyA inventare il Subbuteo, nel 1947, un ornitologo inglese: Peter Adolph. Era stato probabilmente ispirato da William (Will) L. Keeling, inventore di un altro gioco di calcio da tavolo (il Newfooty) brevettato nel 1929. Adolph avrebbe voluto chiamare il suo passatempo The Hobby, come il falchetto rapidissimo e snello da noi conosciuto come lodolaio. Alla fine, impossibilitato a registrarlo con quel nome, non brevettabile (hobby, nella lingua inglese, è anche passatempo), l’ideatore del Subbuteo dovette ripiegare sulla seconda parte del nome scientifico (Falco Subbuteo) attribuito all’uccello da Linneo. Quel dito piegato, in procinto di “sparare” il colpo, ne avrebbe ricordato per sempre il becco adunco.    

Nei primi anni Sessanta, ai modelli bidimensionali su cartoncino (le miniature flats), subentrano gli omini tridimensionali in plastica che avrebbero fatto la fortuna del gioco. Nel 1970 si disputa il primo campionato mondiale, organizzato a Londra dalla Federation of International Subbuteo Associations (Fisa). In Italia, nel 1975, nasce la Federazione Italiana Calcio Miniatura Subbuteo (Ficms); nel 1994 è il turno della Fisct.

suarez-chiellini-subbuteoDal 2011 Terry Lee, un artista inglese trapiantato in Brasile, riproduce, in formato Subbuteo, i momenti e le azioni di gioco più memorabili dei diversi campionati mondiali. Quest’anno è toccata, con altri episodi, al gol di Messi alla Bosnia Erzgovina; al morso di Suárez a Chiellini; all’esultanza di Sturridge dopo la rete realizzata contro l’Italia. Col senno di poi, anziché assistere alle telecronache della disfatta, ci saremmo volentieri goduta una partita di Subbuteo.

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