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Giochi: il cruciverba più difficile del mondo

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Perché? Per far parlare di sé

Venerdì è iniziata la gara fra gli appassionati per risolverlo. Nel 1994 Ennio Peres, il suo inventore, l’aveva lanciato all’interno di una manifestazione dell’estate romana (“Invito alla Lettura”), ma il primo schema era stato pubblicato su Avvenimenti sei anni prima. Peres ce ne ha raccontato così la genesi:

Nell’estate del 1988 Claudio Fracassi affidò a me e mia moglie, Susanna Serafini, la cura di una rubrica di giochi per un settimanale che sarebbe nato qualche mese dopo: “Avvenimenti”. A me, in particolare, chiese di realizzare un cruciverba di quasi impossibile soluzione, perché facesse un certo scalpore. Il prototipo uscì sul numero zero di “Avvenimenti” (12 novembre 1988), con il titolo Il cruciverba più difficile del mondo (coniato dallo stesso Fracassi), e fu riproposto nel primo numero del periodico (1° marzo 1989). La redazione venne sommersa da una valanga di lettere e di telefonate, che contestavano la proposta di un gioco così astruso. Per fortuna arrivò anche una soluzione esatta, a dimostrazione che il cruciverba, sia pur complicato, era comunque risolvibile.

 

Sembravano così facili...

«Un gruppo di minoranza, sempre al centro dei discorsi della gente». Cinque lettere. Chiaro: GEOVA (pazienza se i testimoni non ci sono). «Un divo del giovedì». Quattro lettere. Ovvio: MIKE. Con «Rifiuto solido urbano» ci si accorge, però, che qualcosa non quadra: qui le lettere da inserire, anziché tre (RSU), sono ben diciannove! Né GEOVA, allora, né MIKE. Il “gruppo di minoranza” è quello rappresentato dalle cinque vocali (A, E, I, O, U): «costituisce una minoranza, rispetto al numero totale di lettere dell’alfabeto italiano, ma consente la composizione di parole pronunciabili in maniera scorrevole (si trova sempre al centro dei discorsi della gente)» (www.parole.tv). Il “divo del giovedì” è invece un dio, THOR, a cui era consacrato quel giorno. E il “rifiuto solido urbano”? Eccolo: SPIACENTE MA NON POSSO, un «diniego (rifiuto) deciso (solido), ma gentile (urbano)» (ibid.).

Sono definizioni tratte da alcuni dei cruciverba proposti da Peres negli anni. Provate ora a risolvere lo schema pubblicato nel 1988 su Avvenimenti; considerate le premesse, è più facile di quanto possiate pensare.

 

cruciverba-Giocabolario

 

Orizzontali: 1. Lottò contro Giovanni VIII – 8. L’autore di If you leave me now14. Nacque a Kemusu Argamulja nel 1921 – 15. Ideò un coronamento orizzontale per bilanciare il verticalismo dei motivi cuspidati – 16. Quelle alpine sono striscianti – 17. Contenitori per vecchi scheletri – 18. Re, in lingua quechua – 19. Cittadina nota per le sue case Parravicini ed Omodei, del XVI secolo – 20. Iniziali di un celebre teologo del ’500 – 21. Vaso dall’imboccatura stretta – 22. Paesino circondato da numerosi nuraghi – 23. Viene valutato ai prezzi di mercato – 24. Partecipò alla realizzazione del King’s College – 25. Un antico modo di fare – 26. Agile, una volta – 27. Iniziali di un celebre fisiologo e patologo olandese – 28. Scrittore e sceneggiatore cinematografico statunitense che fu perseguitato dal maccartismo – 29. Volò in Inghilterra – 30. Noto pittore tedesco che fu condannato a morte per aver partecipato alla rivolta dei contadini del 1525 – 31. Importante mercato agricolo algerino – 33. L’antica Brigantium – 35. Un punto del lido dove non si può nuotare – 36. Per niente care – 37. Arma dell’età della pietra.

Verticali: 1. Sconfisse Baasa – 2. Una marcia di congiungimento – 3. Miscela di birra e gassosa – 4. Se limita un piano è morto – 5. Sorgeva alla confluenza dell’Alfeo e del Landone – 6. Sistema operativo dell’HP – 7. Iniziali dell’autore di Characters8. Attaccano le derrate alimentari – 9. Ha una lunga coda nerastra – 10. Nome poetico del pino selvatico – 11. Si occupa di fondi neri – 12. Iniziali di un celebre economista irlandese – 13. Chi lo tira, muore – 15. Valeva tre carantani – 17. Equivale a 198 litri circa – 19. Una delle più calde città dell’Urss – 20. Scrisse Clown’s houses21. Inebriava i Romani – 22. Quelle cornee sono molto ricercate – 23. Preferisce i mari caldi e temperati – 25. Studiò sotto la guida di G. Grandi – 26. Comprende circa 6550 isole ed isolotti – 28. È lungo 1007 Km – 29. Sigla che non compare su La Settimana Enigmistica30. Piante ornamentali messicane – 31. Non fa da sé, ma fa per tre – 32. È rosa, ma non è… rosa e non odora rosa! – 34. Iniziali di un celebre commediografo francese – 35. Iniziali del monaco che collaborò all’edizione dei Salmi di Benedetto Marcello.

La soluzione alla prossima puntata!

 di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Giochi: il cruciverba più difficile del mondo – II. Giochiamo ancora

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Solution: impossible 

La scorsa settimana vi abbiamo proposto la prima versione del “cruciverba più difficile del mondo”, risalente al 1988. Vi diamo la soluzione

Prima di sottoporvi lo schema dell’edizione di quest’anno, facciamo ancora un piccolo viaggio fra le ardue definizioni ideate da Ennio Peres. Ecco la prima dell’edizione del 1994: “Questo, per principio, non va preso in considerazione. Otto lettere per una risposta difficilissima: BLAGUEUR, una parola francese che significa “fanfarone, gradasso” (come dargli perciò credito?). Stessa edizione: Unaranciata africana“. Inutile qualunque ricerca tra le bevande diffuse nel Continente Nero, bisognava scrivere ELOGALE: «piccola mangusta della Somalia, detta anche “mangusta aranciata”». E chi mai – edizione 2002 – “[r]estò in casa, come se fosse misera” (ibid.)? Proprio nessuno. La risposta giusta era CARESTOSA, che si ottiene incorporando restò (RESTO) in casa (CA + RESTO + SA).

E ora, scervellatevi voi… 

Lo schema di quest’anno conta 66 definizioni, 29 orizzontali e 37 verticali. La “difficoltà di risoluzione“, come sempre, risiede nel fatto che quasi tutte le sue definizioni sono elaborate in forma ambigua e fuorviante (attenzione: quasi tutte, non tutte…), pur se rigorosamente corrette nella sostanza. […] Ad esempio, una frase del tipo: Moltitudine di gente tocca (7 lettere) potrebbe essere interpretata come: Massa (moltitudine di gente) lambisce (tocca); in questo caso, la parola da inserire sarebbe: FRIGIDO (7 lettere), nome del fiume che tocca (lambisce) la città di Massa...

Ma ecco lo schema, e le relative definizioni: 

 Cruciverba-Giocabolario

 

Orizzontali

1. Banda combattiva, nata in un sobborgo di Atene – 10. Teutonica costruzione di massa – 19. Illustrò i dolori dell’Uomo, in un contesto giallo – 21. Classico quartetto festivaliero – 22. Cancellate di valore – 23. Riduce la percezione di una particolare pressione fiscale – 24. In termini franchi, non esiste – 25. Frazione di roccia dolomitica – 26. Giocatori svincolabili da gennaio – 27. Spinge a pensare ai propri comodi – 28. Piatto di portata – 30. Vecchio vagabondo – 31. Corso comune – 32. Rima toccante – 33. Squisito termine boccaccesco – 34. Agio al femminile – 35. Lingua irregolare slava – 36. Indica raramente che sala si può utilizzare – 37. Comunicare in tedesco stretto – 39. Scrivete questa volta in scioltezza – 40. Gioviale circolo romano – 41. Canale monzese, non più navigabile – 42. Voce d’emissione molto profonda – 43. Ogni francese la considera sua – 44. Blocco di passaggio – 45. Sito di un dorato luogo di culto – 47. Andò da Milano a Como, per ordine di Napoleone Bonaparte – 50. Azione legale e contraria – 51. Il più alienato informatore degli ispanici in terra yankee.

Verticali

1. La più antica città europea, da sempre pacifica – 2. Difensore esterno, in campo verde – 3. Materia originale che spazia nella materia alterata – 4. La cifra stabilita, per giungere nell’antica sede del Festival di musica Rai – 5. Malta integrante, in piccola dose – 6.Bene di rifugio destinato a dissolversi – 7. Fantastico protagonista spaziale, un po’ lunatico – 8. Anime del Web – 9. Richiamo sommesso che va risentito – 10. È sicuro che scova il proprio valore – 11. Ripartizione del ’68 francese – 12. Restia alla mescolanza –13. Vano rilevante – 14. Fantastico campione neroazzurro, capace di imprese stellari – 15. Lettera in serbo in ogni italiano– 16. Coppia araba – 17. Tale termine stravolto – 18. Favolosa repubblica, che ricorda la Svizzera – 20. Vetusta associazione della Padania del Nord – 26. Massa imponente, in fuga verso spazi alternativi – 27. Autori di passi retrogradi – 29. In Francia, può andare sul lastrico – 30. Difensori civici dei Greci – 31. Coppia elettronica, di produzione francese – 33. Piatto di fibre intrecciate, originario dell’India – 34. Secondi fini – 35. Piccolo gallo comune – 36. Prato costeggiante – 37. Particolare cinghia di una borsa – 38. Rappresenta la Marina della Germania – 40. Garantisce che fili tutto liscio come l’olio, da Trieste in su – 41. Termine preciso, che valeva perfino per i Romani – 44. Trasmette parzialmente una sinuosa parata di stelle – 45. Sforzo non più ammissibile – 46. Va mantenuto negli accordi – 48. La nuova conta da una stazione – 49. Ecco ciò che deve essere inserito al termine di questo cruciverba.

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App: 2048. Il made in Italy alla prova del gioco

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Un “casual Internet gaming” virale 

Con il ritiro dal mercato di Flappy Bird, per decisione dello stesso ideatore (il vietnamita Dong Nguyen, stressato dal successo planetario della sua creatura), e ormai intiepiditasi la passione per Ruzzle, una nuova mania sta facendo macinare chilometri sugli schermi di tablet e smartphone. Nello schema, invece delle lettere, compaiono i numeri. L’obiettivo non è di trovare il maggior numero di parole possibile, bensì di andare il più avanti possibile. Come? Sommando le caselle con la stessa cifra, tutte contraddistinte da un 2 o da una potenza di 2 (4, 8, 16, 32, 64…). Parliamo di 2048, uno sliding puzzle (“puzzle a scorrimento”) diffuso on-line dal suo diciannovenne inventore, Gabriele Cirulli, lo scorso 9 marzo. Nell’arco di una manciata di ore – incredulo lo stesso ideatore – ha iniziato a diffondersi in rete più velocemente di un pericoloso virus. Così come avvenuto per Ruzzle, già poco dopo la pubblicazione, sono apparsi, sui social network, i primi screenshot con punteggi sempre maggiori.

2.048? Macché: 131.072

 

A dare una mano all’affermazione di 2048 è stata la meccanica di gioco, abbastanza semplice. Si parte da un quadrato formato da 16 caselle (4 x 4), alcune delle quali sono perlopiù occupate da un 2 o da un 4. Spostandosi con i tasti freccia verso l’alto o verso il basso, oppure a destra o a sinistra, si devono far collidere due caselle dall’identico valore, riempiendone così una terza con un numero pari alla somma dei numeri contenuti nelle due di partenza: facendo “scontrare” due tessere da 4 se ne riempie una da 8, se le due tessere sono da 8 quella riempita sarà da 16 e così via. Il primo traguardo, somma dopo somma, è quello di raggiungere i 2.048 punti, indicato con una bella casella di colore oro: il percorso, iniziato con anonime tessere grigie con su scritto 2, era proseguito con colori via via più vivaci o appetibili. Attenzione al tragitto, che consente di accumulare a sua volta un certo punteggio: chi risolva il tutto in quattro e quattr’otto, con poche e abilissime mosse, viene penalizzato rispetto a chi abbia intrapreso un cammino più lungo e articolato.

Una volta attirati nella spirale del gioco non ci si accontenta del minimo risultato (2.048); si tira invece dritti verso il paradiso dei giocatori, fissato a 131.072, la combinazione più alta ottenibile (pari a 2 elevato alla diciassettesima). In ogni caso il gioco, per ammissione dello stesso Cirulli, non è proprio farina del suo sacco; ricalca 2048 di Saming, 1024 di Veewo Studio e il primo della serie: Threes, della premiata ditta Sirvo (Greg Wohlwend e Asher Vollmer, lanciato all’inizio del 2014. Tutti precedenti che non hanno però ottenuto lo stesso, clamoroso successo del videogame del giovanissimo italiano. 

Cloni di un clone 

La fortuna arrisa a 2048 è dovuta anche al fatto che il gioco è open source: chiunque può utilizzarne il codice sorgente e procurarsene una versione personalizzata, e così hanno fatto in molti. Tra le versioni più gettonate: 2584, con la sequenza di Fibonacci, e 2048 Chemestry, con gli elementi della tavola periodica. Nella prima l’obiettivo è di raggiungere 2.584, il diciottesimo numero della sequenza di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, ecc.). Anche in questo caso il meccanismo di gioco è semplice: basta far collidere un numero con il suo conseguente nella serie (quindi l’1 con l’1, l’1 con il 2, il 2 con il 3, ecc.). Nella versione “chimica”, inventata da Misho M. Petkovic (si proclama hacker e anarchico), si parte dall’idrogeno (H, numero atomico 1), il quale, scontrandosi con l’idrogeno, crea l’elio (He, n. a. 2); l’elio, scontrandosi con l’elio, crea il litio (Li, n. a. 3) e via di questo passo.Qualcosa, però, sembrerebbe qui non quadrare. 

I mean, a hydrogen plus a hydrogen makes helium because a proton plus a proton makes two protons, which a helium nucleus contains, but past Helium the game went down hill because Lithium isn’t He+He because Li has 3 protons, but He+He would equal 4 protons. I give it an A for effort though.

2 più 2, in effetti, farebbe 4 (Berillio, n. a. 4). Ma cosa volete che sia? Mica stiamo giocando al Piccolo chimico. E in soccorso, in ogni caso, può venire il numero di massa.

 

 

 

 

 

 

 

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani e Antonio Del Maestro

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Fantacalcio: per non patire di solo tifo

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Sfida te stesso

Puoi continuare ad andare allo stadio, puoi voler ancora indossare la tua sciarpetta, puoi non smetterla di intonare cori, ma sei ormai ben consapevole che nulla sarà più come prima, che il tuo credo nel pallone s’è fatto sincretistico. È ormai sparso per tutti gli stadi della penisola: la passione per il Fantacalcio ha preso il sopravvento.

Non avresti mai pensato di gioire per un gol di Tévez, ma sapevi perfettamente che l’Apache era l’attaccante giusto per completare il reparto con “El Tanque” (“Il Carroarmato”) Denis e “El Pipita” Higuaín. È forse ancor più dura da mandar giù che nell’undici titolare non figuri alcun calciatore della tua squadra del cuore. Sono le regole, prendere o lasciare. Circolano però da un po’ – sul suolo britannico – versioni del gioco nelle quali i partecipanti possono selezionare la rosa dei loro giocatori all’interno della squadra per cui tifano. 

A iniziare fu il baseball 

Come Fantacalcio è diffuso anche in tedesco, mentre in spagnolo diventa fantasy-fútbol e in russo fentezi-futbol (Фэнтези-футбол). In inglese è fantasy football (o fantasy soccer), ideato e lanciato sul mercato da Andrew Wainstein, il fondatore di Fantasy League Ltd (1991), che si era ispirato ad alcuni fantasy sports games molto in voga, nel corso degli anni Ottanta, negli Stati Uniti. L’inventore del Fantacalcio (1990) è però Riccardo Albini, che ha preso le mosse dal fantasy baseball americano, conosciuto anche come Rotisserie League Baseball.

Nel 1989 un gruppo di commercialisti, giornalisti, avvocati della Phillies Appreciation Society mangia in un ristorante di New York. È La Rotisserie Française: monta la conversazione su alcuni leggendari campioni della Major League Baseball (come Rich Gossage, Dan Quisenberry, Dick Howser), e intanto qualcuno si mette a disegnare qualcosa su un tovagliolo che intenderebbe riprodurre il “diamante” della pallabase. Il primo esempio di fantasy baseball game risaliva tuttavia a quasi trent’anni prima. Nel 1961 nasceva a Glen Head (NY) per iniziativa di Hal Richman, uno studente di matematica, la Strat-O-Matic: il fantabaseball omonimo non sarebbe partito bene, ma nel 1963 avrebbe preso quota grazie all’introduzione di una scheda per ogni singolo giocatore della Major League. 

 

Una settimana di passione 

Costruire una fantarosa competitiva (25 fantagiocatori in Italia, 15 in Gran Bretagna) non è cosa semplice. Devi riuscire a trovare il giusto equilibrio tra il budget a disposizione e il tuo istinto. Si parte il mercoledì, con una ricognizione degli infortunati e degli indisponibili. Il giovedì è dedicato alle indiscrezioni e dal venerdì il gioco si fa duro, con le consultazioni per le probabili formazioni e l’allestimento della prima fantasquadra. Il sabato mattina è il momento delle rifiniture, per sciogliere gli ultimi nodi e nel primo pomeriggio parte la consegna. Il giorno più caldo della settimana è la domenica, con il monitoraggio frenetico di tutte le partite (quelle vere), in attesa del lunedì: il giorno della verità, con le pagelle dei giornalisti e relativi “bonus” e “malus” (gol, autogol, assist, rigori parati e segnati, ecc.). Il martedì è dedicato agli approfondimenti, con lo studio di statistiche e quotazioni (e le analisi che ne scaturiscono). Quindi si ricomincia.

Passata l’estate, si fa per dire, la febbre da Fantacalcio tornerà a salire. Che non si porti dietro, con le eventuali convulsioni e gli eventuali deliri, qualche infelice commento, accompagnato da gesti scomposti, sui fantaplatani di una (fanta?) Repubblica delle Banane.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

 

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Giochi da spiaggia: il Sup (Stand Up Paddle)

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Un corpo da tavola

C’è il surfing normale, con il suo bell’angolino sul Web e un discreto numero di seguaci su Facebook, e ci sono il bodyboarding, lo skimboarding, il tow-in surfing, il surfing con il paracadute. C’è la tavola a vela (il windsurf), planante (funboard) o non planante (longboard), o la tavola con cui si atterra sull’acqua trainati da un aquilone (il kitesurf, o kiteboard). Ci sono i surfisti che rinunciano a qualunque tavola, dandosi la spinta con le sole braccia: si aiutano perlopiù con una tavola da mani (handboard, o handplane) e un paio di pinne, surfando col corpo perfettamente disteso (bodysurfing, o bodyboarding). Ci sono gli appassionati del Sup (Stand Up Paddle), con le loro pale da canoa, da piroga, da kayak.

Gondolieri atipici

Non è esattamente l’ultimo grido per surfare, perché la moda non è nuova: se ne parlava, come sport acquatico del momento, già nel 2009. Allora il Sup  furoreggiò sulle coste toscane. Polinesiani e hawaiani lo conoscono da secoli, gli australiani ne vanno pazzi. Gli standuppers aumentano intanto anche da noi, ma non è stato ancora reclutato un “esercito del Sup” e non ci sono ancora selve di pollici e mignoli distesi per salutarsi. Difficilmente vedremo anche attraenti aliene televisive con la passione per questo sport, o un fumettistico Silver Supfer armato della sua pagaia a recitare il ruolo di un supereroe “da spiaggia”.

Si rema cavalcando le onde e portati dal vento, in piedi o in ginocchio, su un’asse simile a quella da surfing, ma di più grandi dimensioni (anche tre volte tanto), alla quale viene fissato, da un laccio (leash), il polpaccio oppure il ginocchio. Fissa o regolabile, a pala stretta o a pala larga, in carbonio, in fibra o in alluminio, gonfiabile o meno, la tua pagaia pupi manovrarla anche al riparo dal moto ondoso. I più timorosi o inesperti possono remare nel mare tranquillo, come gondolieri per caso, o possono comodamente sedersi sull’asse prescelta. I più coraggiosi possono divertirsi con lo skateboarding sull’acqua, o scegliere invece il kneeboarding (si sta in ginocchio), il sit-down hydrofoil, il wakeskiing o il waterskiing, con il suo amplissimo ventaglio di possibilità (barefoot skiing, trick skiing, show skiing, slaloming, speed skiing, ecc.).

E se l’acqua proprio non ci piace, e non ci lasciamo convincere nemmeno da una bella ciambella (tubing), possiamo sempre barattare le acrobazie acquatiche con le discese ed evoluzioni rese possibili dalle tavole da neve,  ripiegando sullo snowboarding.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Giochi d’infanzia: in cortile con lupi e streghe. Quando eravamo piccoli

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Premiamo questa settimana, pubblicandolo, uno fra i migliori pezzi prodotti, da lettori e lettrici, nello spirito del Giocabolario. Pezzi che sono stati il risultato di una gara di composizione portata anche all’università, con gli studenti impegnati a raccontare i loro passatempi preferiti. Oppure, ed è questo il caso, i giochi di quando erano bambini.

                                                                                              Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

Tre salti nel passato

Uno. «Toc toc». La voce squillante di un bambino risuona nel cortile. Indossa un cappello giallo dalla visiera palesemente troppo grande. Con un gesto un po’ goffo la fa ruotare, ampliando il suo campo visivo. Ora è pronto. «Chi è?». Un gruppo di altri bambini risponde, in coro. «Sono il lupo mangia frutta!» ribatte lui, come se stesse recitando una formula magica. «Che frutto vuoi?», fanno ancora eco gli amichetti. L’aria del cortile della scuola materna si riempie d’attesa. «Arancia!» Una bambina in seconda fila che indossa scarpette lilla inizia a correre verso l’ingresso della scuola: deve raggiungere la “casa” prima che il lupo riesca a catturarla. Dopo un inseguimento accompagnato da risate il bambino-lupo riesce a prendere la piccola, che, sbuffando, riceve il cappello giallo con la visiera. Adesso il lupo è lei. «Toc toc». Il gioco ricomincia. Tutti pensano al nome di un frutto da impersonare.

lupo-mangia-frutta-Giocabolario

Due. Se ci spostiamo più a sinistra, verso i pini, possiamo vedere altri bambini. Sembrano poco più grandi degli altri, e raccolgono i pinoli prigionieri delle pigne. Sono gli sconfitti di questo turno di Un, due, tre. Stella! Ne rimangono solo cinque in gara. Adesso quattro. La bambina appoggiata al muro ripete la frase di rito e si gira di scatto. I compagni si pietrificano il più in fretta possibile, ma non tutti riescono a mantenere l’equilibrio necessario per far le statue. Mancano pochi metri. Al prossimo turno qualcuno avrà il privilegio di “star sotto”, conducendo il gioco.

un-due-tre-stella-Giocabolario

Tre. Intorno al piccolo giardino fiorito al centro del cortile si è radunata la classe dei più piccoli, sembrano un po’ intimoriti dal nuovo gioco. La maestra si guarda intorno. Butta uno sguardo sui colori dei fiori del giardinetto, e su qualche utensile per il giardinaggio, e spiega ancora una volta, velocemente, le regole del gioco.  «Strega comanda color, color…». Il tempo si ferma per un secondo. «Azzurro!». Difficile. Qualche bimbo si guarda intorno incredulo, alcuni scrutano i fiori, altri si toccano le scarpe, i più pensano che sarebbe molto comodo poter toccare il cielo, uno si fionda su un piccolo innaffiatoio di plastica e chiama gli amichetti più fidati, per condividere la salvezza ottenuta dal ritrovamento del colore. Per questo turno, comunque, sono tutti salvi. La parte della strega tocca ancora alla maestra.

 strega-comanda-colore-Giocabolario

Se ne vedono proprio di tutti i colori

Che sia un lupo dalle bizzarre abitudini alimentari, o una strega appassionata di colori (e relative sfumature), il divertimento è garantito. Coinvolge persino i cattivi delle fiabe. Se provate a scavare un po’ nella memoria, come ho appena fatto io, vi ritroverete immersi in scenari che continuano a proporsi non solo nei cortili delle scuole, ma ovunque ci sia un numero consistente di bambini e tanta voglia di correre e giocare all’aperto. I più furbi sceglieranno forse nomi di frutti esotici (a quale lupo verrebbe mai in mente di mangiare un avocado o una papaia?); ricorreranno alla marcia del soldato, per ottimizzare velocità e stabilità; pronunceranno nuances di colori tanto particolari  da risultare quasi impossibili da trovare, persino in un giardino in piena fioritura.

Una variante del Lupo mangia frutta, più fantasiosa e colorata, è quella in cui l’animale dice «Macedonia!» e un nugolo di bambini si precipita verso la “casa”. A quel punto rimane solo l’imbarazzo della scelta. Attenzione, però, la macedonia si può mangiare una sola volta per turno. In Un, due, tre. Stella! chi arriva per primo a toccare il muro grida «Stellone!», e in alcune varianti, cui prendono parte i più temerari, la parola da pronunciare prima di voltarsi diventa sempre più corta; è un gioco quasi universale, presente in molti altri paesi (magari con l’apporto di qualche modifica). In Strega comanda colore chi viene catturato dalla fattucchiera va dritto in “prigione”. A vincere è l’ultimo bambino che riesce a stare in gara avendo collezionato il 100% di colori localizzati. Regola imprescindibile è che il colore pronunciato sia presente nel campo di gioco. Nascosto o in singola copia, ma in ogni caso a portata di mano.

                                                                                                       Ambra Cirina

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Il gioco ai tempi dell’iPhone: da ‘Snake’ a ‘Ruzzle’

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Premiamo anche questa settimana, pubblicandolo, uno fra i migliori pezzi prodotti, da lettori e lettrici, nello spirito del Giocabolario. Pezzi che sono stati il risultato di una gara di composizione portata anche all’università, con gli studenti impegnati a raccontare i loro passatempi preferiti. Oppure, ed è questo il caso, i giochi nell’era di Internet.  
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         Massimo Arcangeli e 
Sandro Mariani

                                                                                                                                                              

Universi paralleli in un click

Puoi dover mettere in fila caramelle colorate cercando di far tris tra mirabolanti effetti sonori (sullo sfondo: paesaggi di nuvole di zucchero rosa), come in Candy Crush; puoi dover raggruppare frutta, uova, verdura su carrellini digitali di legno, disegnati sorprendentemente nei minimi particolari, come in Farm Heroes; puoi far saltellare un simpatico esserino verde verso il cielo su instabili gradini sospesi, cercando di evitargli rovinose cadute, come in Doodle Jump; puoi immedesimarti in impavidi esploratori in fuga da templi infestati e belve feroci, in una corsa sempre ai limiti del tempo, come in Temple Run.

I giochi scaricabili dagli app stores di Ipad, Ipod e Iphone, un mondo in continua espansione, cresce ormai al ritmo di centinaia di novità al minuto, grazie all’apporto di progettisti e tecnici informatici ma anche con il contributo di tanti, tantissimi inventori amatoriali. Giochi scaricabili tra i più disparati.

Per tutti i gusti

Negli scaffali virtuali di ogni store si trovano giochi di società e giochi di guerra, passando per i giochi di velocità fra automobili (notissimo Asphalt, con i suoi numerosi surrogati) e una enorme quantità di giochi di strategia. Sono finiti sulle piattaforme virtuali perfino i giochi più antichi o di grande tradizione, restaurati e digitalizzati per la circostanza: dalla tombola alle parole crociate.

Ce n’è davvero per tutti i gusti. Se ami la matematica, e sei un patito dei giochi di calcolo, puoi divertiti con Semetti, la versione virtuale di un celeberrimo gioco di origine cinese; puoi passare anche ore ad accoppiare piccole tavolette sullo schermo, riprodotte nei minimi dettagli. Se ti piace cimentarti nelle sfide che ti lancia il vocabolario c’è il familiarissimo Ruzzle: sotto la spada di Damocle di un cronometro che scandisce inesorabilmente il tempo, sfidando amici o perfetti sconosciuti, devi ricercare più parole possibili da piazzare in un’apposita griglia. Per gli amanti del tris nelle sue versioni più disparate, invece, con un semplice click sull’app store, si apre un universo parallelo: si va da Bejeweled, dove devi mettere insieme pietre preziose, a Pet Rescue Saga, dove ti viene richiesto di formare catene di cuccioli di animali (cagnolini, gattini, coniglietti, maialini, ecc.) da salvare. Senza dimenticare le migliaia di giochi a tema per i più piccoli; i giochi di ruolo che mettono in campo esistenze virtuali (caposcuola: The Sims); i giochi per imparare, divertendosi, le lingue più svariate.

Terre riesplorate e nuove frontiere

Anche i più nostalgici possono qui trovare pane per i loro denti. I possessori di un Nokia 3310 ricorderanno senz’altro Snake, per tanto tempo mancato dalle scene. Sono stati proprio gli app stores a rilanciarne una versione fedelissima all’originale, ideata per touch screen. Grandi ritorni a parte, in ogni caso, sembra l’originalità la vera arma vincente; come avviene d’altronde, da sempre, per tutti i giochi.

In una classifica di qualche tempo fa sui migliori giochi inventati per IPad e IPhone primeggiava Osmos, un geniale rompicapo in cui ci s’immedesima in una particella di ossigeno impegnata a combattere contro particelle di anidride carbonica. Un modo per rendere “appetitosa” anche una frazione di scienza indigesta – quando non apertamente detestata – per intere generazioni di studenti.

Maria Ismaela Murgia

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Giochi, ‘La Reginetta del ballo': un sogno per tante bambine

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Pubblichiamo anche questa settimana, per l’ultima volta prima della ripresa dopo la sosta agostana, uno fra i migliori pezzi prodotti, da lettori e lettrici, nello spirito del Giocabolario. Molti dei quali, ed è questo il caso, hanno rievocato tanti spensierati giochi infantili.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Massimo Arcangeli
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Sandro Mariani

 

Piccole donne, ieri come oggi

E se Barbie t’invitasse a rivivere con lei i palpitanti attimi prima del grande ballo? Le bambine di qualche generazione fa hanno vissuto questa esperienza grazie al gioco da tavolo La Reginetta del ballo, prodotto nel 1965 (Mattel) e rilanciato nel 2011 in una nuova versione. Bambine riunite a giocare per sognare di poter essere, per un giorno, le nuove reginette. Bambine che dovevano però dimostrare di avere tutte le credenziali necessarie, che si acquisivano durante la partita: un boyfriend, un anello di fidanzamento, un vestito elegante e il distintivo di un club.

Come ti seduco il pupo

Le piccole giocatrici partono da casa e, lanciando il dado, hanno subito l’opportunità di fermarsi sulla casella delle occasioni di guadagno. Si può mettere da parte qualche soldino facendo la baby-sitter, portando a spasso il cane del vicino o aiutando la mamma nelle sue commissioni. Ed è bene cogliere al volo tutte le occasioni se si vuole disporre di un gruzzoletto con cui comprare l’abito più bello per le vie della moda: non si può andare al ballo se non s’indossa un vestito scintillante, da vera principessa, ovviamente di color rosa.

Terminato lo shopping, a materializzarsi è un’altra casella, molto meno amata: l’ingresso a scuola. Quasi impossibile evitarla, ci si può anzi passare la maggior parte del tempo di una partita per gli innumerevoli “salta un turno” o per altre caselle che, con le scuse più banali, ti rimandano lì (magari le altre concorrenti, intanto, si avvicinano al traguardo). Uscita dalla scuola non ti resta che andare in cerca dell’uomo della tua vita, quello che t’inviterà al ballo: una vera reginetta non può certo andarci da sola. Rispondono alla scopo le caselle presentazioni, dove hai la fortuna d’incontrare quattro diversi ragazzi: Ken e Alan (rosso e ribelle), Bob (tenero e lentigginoso) e Tom (un trentenne occhialuto). Si lancia il dado, s’incontra il boyfriend e, se non si è soddisfatti, si può fare uno scambio con qualche altra giocatrice (fosse altrettanto facile nella vita!). Il partito migliore? Ken, il ragazzo ideale di tutte le teenager. Il meno desiderato? Tom, forse per i grandi occhiali da vista e l’aspetto un po’ da “vecchio”.

I sogni son veritieri

Trovato il ragazzo giusto, ti aspetta il ballo mascherato. Qui il tuo lui ti chiede di diventare il suo “ragazzo del cuore” e, se accetti, ottieni un anello dorato di plastica che potrai portare fiera al tuo anulare. Tirando ancora il dado, fra una “carta sorpresa” e l’altra, una seduta al parrucchiere e una chiacchierata con Midge, puoi raggiungere la casella dell’appuntamento alle otto; qui, salvo inconvenienti con il tuo boyfriend (potrebbe rispedirti dal parrucchiere perché non gli piace la tua pettinatura, o farti saltare un turno perché sta parlando di automobili col papà), potrai diventare a tua volta la sua “ragazza del cuore”.

Ma l’amore non è tutto e, come nella vita, il gioco t’insegna che devi formarti e far carriera se vuoi diventare una reginetta esemplare: la casella del club della scuola ti dà così l’opportunità di diventare presidente di un’associazione (musicale o letteraria, teatrale o sportiva), e di guadagnarti un bel distintivo (sempre dorato, sempre di plastica). Ora puoi finalmente dirigerti al ballo. Se non sei fortunata troverai caselle che ti rimanderanno a casa, se la fortuna è dalla tua parte potrai toccare la casella più ambita: Midge ti offre un passaggio sulla sua macchina per qualsiasi casella esterna. E cosa scegliere, se non l’ingresso al ballo? Arrivata a destinazione non ti resta che tirare ancora il dado, e sperare di essere tu la nuova reginetta.

Non c’è momento più toccante – chi ha giocato lo sa – che sentirsi per un attimo la più bella, e sognare di essere un giorno la reginetta della propria vita, di avere un uomo fantastico al proprio fianco e, con un semplice distintivo, di poter trasformare la propria passione in un lavoro. E magari, quando avrai una figlia, tirerai fuori da uno sgabuzzino o una soffitta La Reginetta del ballo e giocherai con lei, insegnandole che i sogni possono avverarsi anche solo per un tiro di dado.

Alice Panarese

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Othello, un gioco per tutti

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Ludico o tragico? Questo è il problema

Perché mai un gioco da tavolo, con 64 pedine a due facce che sembrano invitanti cioccolatini per metà fondenti e per l’altra bianchi, si dovrebbe chiamare Othello? Dov’è Venezia, e dov’è Desdemona? Dove sono Iago e Cassio, e che c’entra il grande bardo? Tutti interrogativi inutili, anche se le sorti del dramma di Shakespeare si sono intrecciate in qualche modo, fin dall’inizio, con quelle del gioco inventato dal giapponese Goro Hasegawa. 

«Qualche anno fa, […] tutte le volte che si cercava di organizzare uno striminzito torneo di Othello, inevitabilmente qualcuno tra la gente di passaggio finiva per chiedere qual […] era il cantante che avrebbe interpretato il ruolo del “Moro di Venezia”. Ora, invece, ci viene riferito che ogni volta che viene allestita l’omonima opera lirica verdiana, immancabilmente la cassiera del teatro di turno viene assalita da un’orda di accaniti giocatori che vogliono sapere qual è la tassa d’iscrizione e quali premi in palio ci sono». 

Così scriveva Ennio Peres, già nei lontani anni Ottanta, nella paginetta (p. 5) che apriva un’agile guida, curata dalla Federazione Nazionale Gioco Othello, a un passatempo che avrebbe fatto sempre più proseliti. Il volumetto s’intitolava Othello. Il libro per imparare… la fantasia per giocare (Roma, Malvarosa, 1987), ed era il frutto del lavoro di tre diversi autori, allora tra i migliori giocatori di Othello sulla piazza italiana: Augusto Brusca, Alessandro Maccheroni, Luigi Puzzo. La Federazione Nazionale Gioco Othello (FNGO) era nata nel giugno di due anni prima della sua pubblicazione. Al tempo i dominatori assoluti, a livello mondiale, erano i giapponesi (lo sono ancora oggi), ai quali tentavano comunque di tener testa in qualche modo gli americani e, negli ultimi anni, gli europei.

I campionati mondiali avevano preso avvio nel 1977, e si erano poi svolti ogni anno. Nel 1985 il miglior risultato italiano: il secondo posto ottenuto, in Grecia, da Paolo Ghirardato. Si sarebbe dovuto aspettare il 2008 per il raggiungimento del gradino più alto del podio: a guadagnarlo il milanese Michele Borassi, dopo una combattuta finale disputata contro il nipponico Tamaki Miyaoka.

In campo come due judoka 

L’Othello è una versione più moderna dell’ottocentesco Reversi (cfr. ingl. to reverse ‘invertire’). Brevettato da Hasegawa nel 1971, è molto facile da apprendere, ma richiede anni e anni di esercizio e di elaborazione di schemi per la messa a punto di sofisticate tattiche e strategie. Le pedine bicromatiche (una faccia è bianca, l’altra nera) sono quasi tutte rovesciabili: le uniche non ribaltabili sono quelle posizionate ai quattro angoli dell’othelliera.

Per giocare bisogna essere in due, e si comincia con le quattro caselle centrali già occupate da due pedine nere e due bianche, in posizioni alterne. È l’unica differenza rispetto al Reversi, nel quale le prime caselle a essere occupate sono sempre le quattro centrali, ma non necessariamente nel modo in cui avviene nell’Othello: lì i giocatori, liberamente, le posizionano dove credono.

La prima mossa spetta al nero. Condizione indispensabile perché si possa fare una mossa è che si possa rovesciare almeno una pedina avversaria, intrappolandola fra due proprie; se questa condizione non sussiste, si è costretti a passare. Vince chi può vantare alla fine la presenza, sul terreno d’incontro, di pedine del colore scelto in numero superiore a quelle avversarie.

Le sorti di una partita possono essere incerte fino al termine dell’incontro. I rapidi, possibili capovolgimenti di fronte hanno suggerito a molti il paragone fra una gara di Othello e un combattimento di judo. Fra giapponesi, d’altronde, ci s’intende. 

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Tecnologie: steampunk, i nuovi padroni del vapore

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Se il futuro fosse un gambero

steampunkL’informatica ci squaderna davanti un mondo sempre più rapido e miniaturizzato; incredibilmente reale, ma distante anni luce da noi e dalla nostra capacità d’immaginazione. Microchip infinitamente piccoli e intelligenti ci fanno comunicare con una sonda a milioni di chilometri dalla Terra, o ci permettono di suonare un campanello che, qualche centimetro più in là, annuncia il nostro arrivo. Il tutto attivato da forze a noi invisibili.

Ma proviamo per un momento a immaginare “come ci sarebbe potuto apparire il passato se il futuro fosse accaduto prima” («what the past would look like if the future had happened sooner»). Recita così uno degli slogan più famosi dello steampunk (lett. “punk a vapore”), un movimento artistico-culturale, nato alla fine degli anni Ottanta, che presuppone la presenza, dietro ogni forma, architettura o strumento delle moderne tecnologie, di un “antenato” di età vittoriana.

La nostra vita, invece di rincorrere i circuiti stampati, torna apparentemente – qui sta il gioco – a girare intorno a vecchi dispositivi o a vecchi meccanismi, e li rilegge alla luce della postmodernità o dell’era del mutazionismo: lanciafiamme e astronavi (in legno e acciaio) a vapore; telefonini trasformati in archeocellulari, dotati di pulsanti simili a quelli di una macchina da scrivere, alimentati da una piccola centrale a carbone portatile, da indossare a mo’ di zainetto, e collegati a un monitor a tubo catodico; pen drive che immagazzinano informazioni attraverso una serie di ingranaggi mossi da una minuscola stilografica, che scrive su piccoli fogli di carta; computer fatti di manopole, leve, sbuffi di vapore e tubi di rame e ottone che corrono per decine e decine di metri intorno a una tastiera rigorosamente meccanica, e a uno schermo incorniciato in un’intelaiatura di legno e di cuoio; protesi umane, lontanissime dai circuiti integrati che decodificano impulsi nervosi, funzionanti grazie a pistoni idraulici e manometri. Ma ce n’è anche per chi vuole imbarcarsi sul Nautilus del Capitano Nemo, e vivere appassionanti avventure insieme a lui e alla Lega degli Straordinari Gentlemen; per chi vuole spostarsi sul Castello Errante di Howl del giapponese Hayao Miyazaki; per chi vuol viaggiare nel tempo sulla locomotiva di Ritorno al futuro.

Come riuscire a immaginare tutto questo? Non sarebbe un esercizio mentale molto più complicato di quello necessario a figurarsi un dispositivo, infinitamente più piccolo della punta di uno spillo, in grado di memorizzare tutti i libri del mondo impiegando meno tempo di quello che ci vorrebbe per leggere questa frase.

Da una costola del cyberpunk

Se i precursori del genere sono già individuabili negli anni Sessanta e Settanta, il termine steampunk è stato coniato nemmeno tre decenni fa, probabilmente da K. W. Jeter. Alla fine degli anni Ottanta lo scrittore americano, nella lettera di accompagnamento a un suo romanzo (Morlock Night, 1979), inviato a una rivista di fantascienza, dichiara di ritenere che “le fantasie vittoriane siano prossime a diventare la prossima grande cosa” («Victorian fantasies are going to be the next big thing») e per etichettare il fenomeno, riferendosi a sé ma anche a Tim Powers (The Anubis Gates, 1983) e a James P. Blaylock (Homunculus, 1986), pensa proprio alla possibilità di utilizzare la parola steampunk: «Something based on the appropriate technology of the era; like ‘steampunks’, perhaps» (“Locus Magazine”, num. 315, aprile 1987).

Al tempo Jeter, Powers e Blaylock, come William Gibson (a partire da Neuromancer, 1984) e Bruce Sterling, Michael Swanwick e Walter Jon Williams, esploravano «the futuristic commingling of human being and computer in their “cyberpunk” novels and stories» (Michael Berry, Wacko Victorian Fantasy Follows ‘Cyberpunk’ Mold, “The San Francisco Chronicle”, 25 giugno 1987). Sarebbe diventato un cult del “punk a vapore”, d’altronde, proprio un romanzo di Gibson e Sterling: The Difference Engine (1990). Il protagonista, Charles Babbage, è il matematico e filosofo inglese (1791-1871) che aveva accarezzato a lungo l’idea di riuscire a progettare una macchina analitica, un protocalcolatore in grado di eseguire qualunque calcolo.

Quel sogno, in The Difference Engine, diventa realtà.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Giochi: ciclotappo, calciotappo e altri sport da ‘stappare’

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Chi di tappo ferisce…

Posizionati i tappi sul campo di gioco, e partita la gara, i destini di velocisti e di bomber, di fuoriclasse e bidoni, di giovani, giovanissimi o anziani, sono tutti riposti nell’abilità delle loro dita di bicellare. Il verbo è un derivato di bicellata, un genovesismo, e fa riferimento al colpo effettuato con «l’indice o il medio in opposizione al pollice o con il pollice in opposizione all’indice o al medio». Si può “bicellare” colpendo alla base i calciatorini del Subbuteo, oppure una bella biglia colorata. La “bicellata” diventa schicchera a Roma (e altrove), schicca nelle Marche, santillo in Campania, biscotto (o biscottino), buffetto o nocchino in Toscana, cricco o cicco, puffetto o cicchetto in Emilia-Romagna e così via. Il colpo di dita, se ben assestato, può cambiare repentinamente le sorti di un incontro. 

Spartani sì, ma non sempre semplici 

Se le regole del calciotappo sono abbastanza intuitive, e ricalcano più o meno quelle del Subbuteo, è assai più complicata la vita dei “ciclotappisti”, che vengono informati della lunghezza, della larghezza e delle difficoltà del percorso da affrontare (tra salite e discese, ponti e sopraelevazioni, ecc.) solo il giorno stesso della gara.

Vince, com’è ovvio, il ciclotappista che taglia per primo il traguardo. L’ordine d’arrivo, secondo il regolamento ufficiale, è stabilito sulla base della «successione dei passaggi dei tappi sulla linea di arrivo; perché sia considerato valido l’arrivo deve essere regolare il tiro, ossia il […] tappo deve fermarsi sul percorso, completamente oltre la linea d’arrivo; oltrepassando il traguardo, il tappo viene posto dall’arbitro nella classifica di gara. Ai fini della classifica finale, nel caso in cui un tappo, prima di oltrepassare la linea d’arrivo, urti un altro tappo ancora in gara, facendo oltrepassare anche a quest’ultimo il traguardo, verrà comunque classificato davanti al tappo urtato».

Un po’ di storia

ciclo-tappo-GiocabolarioBen venga l’agonismo, con le tattiche, le tecniche e le strategie di gioco, ma i veri protagonisti rimangono pur sempre i tappi, più precisamente i tappi a corona. Brevettati nel 1885 dall’americano William Painter, hanno fatto ingresso in Italia nel secondo dopoguerra. Il loro uso ludico è stato favorito dall’immissione sul mercato di alcune bibite; al punto che quello coi tappi veniva un tempo chiamato anche gioco dei sinalcoli, dal nome di una bevanda analcolica tedesca, a base di frutta (Sinalco, dal lat. sine alcohole ‘senza alcol’), tuttora in commercio.

Sinalco (Emilia-Romagna; a Parma resiste sinalcolo) viene chiamato talora, ancora oggi – altri nomi: lattina, nel Lazio; scudlìn, in Piemonte; tollino o scatulìn, in Lombardia; ecc. –, ciascuno dei tappi utilizzati per giocare a ciclotappo, a calciotappo e calcettotappo, oppure a tappobiliardo (o biliardotappo): si prendono da 3 a 7 tappi; si dispongono su un tavolo in modo tale che formino un triangolo; si “spacca” con una matita, una penna o un altro oggetto appuntito;  si cerca di portare i propri tappi all’interno di un cerchio, preventivamente disegnato sul campo di gioco (vince chi riesce a “imbucare” per primo tutti i suoi surrogati di palle da biliardo). Tutti giochi di una volta, come i tanti che da anni, a Milano, l’Accademia del gioco dimenticato (via Procaccini 4) prova a sottrarre all’oblio: nel 2000 il fondatore dell’associazione, Giorgi F. Reali, ha promosso a questo fine addirittura un referendum (“I cento giochi da salvare per il nuovo millennio”).

Per equipaggiarsi di tutto punto

Dar vita al proprio “giocatore” è una vera e propria arte. Per prima cosa bisogna scegliere per bene i tappi, che non devono essere deformati né nella circonferenza (le bottoglie vanno aperte lentamente, facendole ruotare) né alla base, per non  comprometterne l’aderenza. Procurato il tappo bisogna reperire l’immagine del ciclista o del calciatore (o dell’automobilista, dell’attore, del personaggio dei fumetti…) da inserire al suo interno, e quindi ritagliarla. La preparazione dell’atleta potrà eventualmente prevedere, per incollare l’effigie al tappo, l’aggiunta di cera di candela o altro materiale fissante (stucco, plastilina, pongo, ecc.). Ma attenzione agli anabolizzanti: l’antidoping è dietro l’angolo.

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Giochi: trucco, boccette e altri passatempi, l’italianismo in gioco

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La (già) perfida Albione e il diavolo italiano

Il periodo di più consistente importazione in inglese di parole italiane fu l’età elisabettiana, in cui la nostra lingua divenne tanto di moda da suscitare risentimenti e critiche: il precettore di Elisabetta I, Roger Ashman, con un motto che sarebbe divenuto proverbiale, arrivò a sostenere che an Englishman Italianate is a devil incarnate. Dal canto suo Giovanni Florio, «figlio di profughi italiani, professore d’italiano ad Oxford, insegnante d’italiano del principe Enrico, figlio di Giacomo I» (Sandra Sidro,Le parole italiane entrate nella lingua inglese, «Atti della Accademia delle Scienze di Torino. II. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», CV, 1971, pp. 287-372), nonché autore del fortunatissimo A Worlde of Wordes, or Most Copious and Exact Dictionarie in Italian and English (London 1598), non si limitava a vantare le qualità della lingua italiana – intanto la diffondeva tra i nobili di corte – ma aggiungeva che la conoscenza dell’inglese, superata la Manica, era praticamente inutile.

L’talianismo in gioco

Di peso non trascurabile è il contributo portato dall’italiano all’inglese in sport e giochi che impegnano più direttamente e intensamente il corpo, e non fanno eccezione i giochi da tavolo. Lo stesso passatempo, che ricalca il fr. passe-temps (1410-1425) e ha iniziato a diffondersi in Italia durante la prima metà del XVI secolo, è un italianismo non solo in inglese (passatempos plur., 1632; passe tempi plur., 1644) ma anche in tedesco (Passa tempo, 1728).

La bochette, conosciuta in Francia a partire dal XVII secolo, è a sua volta un adattamento dell’it. boccetta. La parola è giunta fino allo spagnolo sudamericano (bocheta), e il gioco cui dà il nome si pratica notoriamente su un tavolo da biliardo privo di buche, e senza l’ausilio delle stecche; già nel XVII secolo l’autore di un dizionario etimologico francese ne aveva correttamente individuato l’importatore in terra francese (il cardinale Mazzarino) e la provenienza italiana: «De l’italien boccietta, diminutif de boccia» (Gilles Ménage, Dictionnaire étymologique, ou Origines de la langue françoise, Paris 1650, s. v.).

Simile al gioco delle boccette è il trucco, praticato a terra o su un tavolo simile a quello del biliardo: molto diffuso nell’Italia seicentesca (Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra il giuoco della pallamaglio 1626), è alla base del ted. Trucco, -kko (1876), dell’ingl truck(s) (1671), del fr. truc ‘sorta di biliardo’ (1630), dello sp. truco (1607) e trueco (1607). La Sala del Trucco del bel palazzo barocco chigiano di Ariccia (RM), in cui Luchino Visconti girò gran parte degli interni del Gattopardo, prende il nome dal biliardo che vi è contenuto, intagliato da un grande ebanista della Roma del XVII secolo: Antonio Chicari.

Prestiti concessi, prestiti ricevuti

Del biliardo abbiamo già parlato in un altro intervento, ma senza soffermarci sull’origine della parola, che è dal fr. billard. Dell’antichità del gioco si stupì Pietro Fanfani, linguista e scrittore toscano, dalle pagine del suo “Borghini” (vol. I, anno II, 1864: 297-300). Era la circostanza della pubblicazione, su quel periodico, di un capitolo cinquecentesco (Del giuoco del biliardo) composto da Niccolò Martelli e dedicato a Pandolfo Pucci, che aveva probabilmente introdotto il gioco a Firenze.

Nel componimento il Martelli, che chiama il gioco anche Gugole («le G.», v. 5), forse dal ted. Kugel (‘palla, sfera’), prima tenta di individuarne le origini («Chi dice che da Napol prima fuora, / per usar quelli il pallo e ’l maglio; / ma gli è diverso assai da questo d’ora. / Altri dicon che Mantova ne tenne / e tiene il principato, e Bilïardo / per nome lo chiamarono solenne», vv. 10-15) e alla fine lo descrive così: «Ogni tua palla è d’avorio gentile, / et puossi fare ancora a solo a solo; / ma due per due ha più del signorile. / Risiede in mezzo al tuo bel campo un polo / di ferro con un cerchio appunto tondo / quanto passar vi può la palla a colo. / Quatro uscite vi son, che fan giocondo / colui che trucca l’altro, e ‘n campo resta, / con un legnetto di non molto pondo. / Ma chi entra pel buco appunto a sesta, / percotendo da prima, è buon maestro, / e del truccar porta corona in testa. / Bisogna ingegno, essere accorto e destro, / esercitarsi sopra ogni cosa,  / vie più che a gioco pedestre o equestro»  (vv. 64-78).

Una descrizione perfetta. Quando le lingue europee – bei tempi –  si scambiavano liberamente parole le une con le altre.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Gli scacchi e le loro origini leggendarie

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Un re incauto, un abile ministro

Fra gli antenati degli scacchi c’è il chatarunga, inventato in India (fra il IV e il V sec. d. C.) come il suo più prossimo successore: il chatrang. Il gioco, giunto in Persia nel VI sec., sarebbe stato lì ribattezzato shatranj dai conquistatori arabi e sarebbe quindi arrivato in Europa.

La tradizione vuole che l’inventore del chatarunga (in realtà il suo perfezionatore) sia identificato con Sassa (o Sissa, etc.), figlio del re indiano Dahir (o Daher, etc.). Compare in molte leggende che narrano la nascita del gioco, e può indossare ora i panni di un (primo) ministro ora quelli di un dignitario di corte, di un bramino o altro. Su quell’origine un anonimo scrittore vissuto durante il regno di Timur (1370-1405), o negli anni seguenti, ci ha trasmesso – in un’opera incompleta – tre diverse storie. Le racconta tutte e tre Jules Arnous de Rivière (1830-1905), famoso scacchista francese, in un volume tradotto per la prima volta in italiano nel 1861:Nuovo manuale illustrato del giuoco degli scacchi. Leggi e principi. Classificazione degli esordi e fini delle partite […] (Trieste, Coen).

Le tre storie: diversi sovrani, un solo ministro

Nella prima storia il re indiano Kaid, sconfitti tutti i suoi nemici e riportata la pace nel regno, piomba nell’afflizione e nella noia. Per uscirne chiede aiuto al suo ministro Sassa, che gli parla degli scacchi e lo invita a provarli. Sassa si rende conto tuttavia che il gioco è troppo complicato e perciò lo semplifica, riducendo i pezzi in campo a 32 (erano 56). L’idea funziona e, all’offerta di una ricompensa, Sassa risponde al re di non voler null’altro che un diram d’argento per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via fino alla sessantaquattresima. Kaid lo rimprovera per una così modesta pretesa, ma si deve immediatamente ricredere quando il tesoriere lo informa che tutti i diram del globo non sarebbero stati sufficienti ad accontentare Sassa: il sovrano avrebbe dovuto sborsarne ben 18 trilioni 446 biliardi 744 bilioni 73 miliardi 709 milioni 551mila 615 (18.446.744.073.709.551.615). Due gli epiloghi: in uno il re, colpito da tanta saggezza, offre il regno all’alto dignitario, che però rifiuta; nell’altro, ritenutosi preso in giro da lui, lo fa mettere a morte.

Nella seconda storia ecco riaffacciarsi Sassa. Si trova ora a far da primo ministro al giovanissimo figlio del re Fur, salito al trono dopo la morte del padre. Ha il compito di istruirlo velocemente nell’arte della guerra, e risolve il problema con un corso accelerato di scacchi. Il monarca, imparato il gioco, ha la meglio anche lui sui suoi nemici e, tornato a casa, s’infatua del passatempo che l’ha salvato e, con lui, ha salvato il suo regno.

La terza storia vede protagonisti due fratelli, Gau e Ralkland, che si contendono un impero. Ne nasce una guerra civile. A imporsi è il maggiore (Gau), mentre l’altro muore per un aneurisma. Una morte che la madre dei due non accetta, immaginando che la mano assassina sia stata quella del figlio superstite. Entra però in scena l’immancabile Sassa: ricostruisce la battaglia sulla scacchiera, riuscendo a dimostrare alla sovrana come Ralkland sia morto in realtà per cause naturali.

Scacchi

Moltiplicazioni di scintille e chicchi di grano

Un’altra leggenda sugli scacchi, raccontata nell’operetta di un abate (Francesco Cancellieri, Il giuoco degli scacchi, trattatello tradotto dall’inglese […], Venezia 1824, p. 15 sgg.), vede il bramino Sissa alle prese con un principe che si comporta da tiranno. Sissa riesce però a fargli capire, attraverso le regole degli scacchi (da lui inventati per l’occasione), quanto un re debba essere riconoscente ai suoi “pezzi”.

Si ripete qui la storia dell’iperbolica ricompensa (al posto dei diram, però, chicchi di grano), che sarebbe arrivata anche agli orecchi di Dante per il tramite della poesia provenzale: “E poi che le parole sue restaro, /non altrimenti ferro disfavilla / che bolle, come i cerchi sfavillaro. // L’incendio suo seguiva ogne scintilla; /ed eran tante, che ‘l numero loro / più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla”. (Par., XXVIII, 88-93). Beatrice ha appena finito di parlare che dai cerchi angelici si sprigionano scintille sfavillanti come dal ferro infuocato. Ogni scintilla – nel suo movimento circolare – segue la fiamma da cui si è mossa, e le scintille sono così tante da affondare nelle migliaia più di quanto avvenga con la progressione numerica prodotta dal “raddoppiamento degli scacchi”. 

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

 

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Giochi, le bocce: tante varianti per una sola passione

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V’amo, o pie bocce!

Giocava alle bocce, un gioco fra i più popolari in Italia (e in Francia, dove sono state immortalate in un famoso dipinto da Henri Matisse), anche il fiero Giosue Carducci: «La passata domenica feci, a piedi, s’intende, una lunga e alpestre scorreria nei domini di Sua Maestà Apostolica, e giuocai alle bocce all’ombra della bandiera austriaca». Così scrive il grande artiere nel suo Epistolario, ma non è certamente la prima testimonianza italiana di un gioco molto antico. La sua presenza è accertabile già nel Trecento inglese, e rudimentali bocce in pietra – risalenti al 7000 a. c. all’incirca – sono state ritrovate in Turchia. Anche i greci, e prima ancora gli egizi (II millennio a. C.), praticavano un gioco non molto diverso da quello delle bocce. Lo stesso dicasi per i romani, che si divertivano con la bulla.

Il gioco delle bocce

Nel nostro paese, prima del Carducci, parla fra gli altri delle bocce Giambattista De Luca (1614-1683), «prete cardinale di Santa Chiesa», a proposito della riprovazione, da parte del legislatore, dei contratti riguardanti vari giochi, proibiti o meno (dadi, scacchi, giochi di carte, ecc.), qualora si fosse giocato a credito e non in contanti (Il Dottor Volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale, e municipale […], tomo terzo, Colonia 1740, p. 365). Si voleva evitare, ovvio, l’indebitamento sulla parola. In un altro testo seicentesco (Regole della Disciplina Ecclesiastica Raccolte da Sacri Canoni, Concilij, e SS. Padri. Portate dalla Lingua Francese nell’Italiana, e difese da Gio. Battista Ciambotti Benefitiato di S. Maria Maggiore […], Roma 1669) leggiamo:

La Sinodo di Langres dell’anno 1404[,] in tempo di Carlo VI[,] e l’altra di Sens dell’anno 1524[,] proibiscono il gioco delle carte, dati[,] piastrelle, palle, boccie, piroli, maglio, della lotta, e d’ogne sorte di gioco di risico, col quale l’honestà Ecclesiastica venga offesa, & anco l’assistere a veder giocar gl’altri. Proibiscono parimente il gioco de scacchi, se non sia rare volte, perch[é] se bene questo è gioco honesto, che fa conoscere la sottigliezza dello spirito, richiede tuttavolta inutile applicatione, e fa perdere gran tempo (p. 34).

Un divieto, quello di giocare a bocce, che investì, nello stesso secolo (1658), anche l’America puritana; per l’Inghilterra aveva già provveduto a suo tempo Enrico VII (1457-1509), il primo monarca della dinastia dei Tudor.

Strategie e strutture di gioco

Un pallino (o boccino) in mezzo al campo di gara, e la sfida a mettere quante più bocce possibili tra lui e la prima palla avversaria. Le regole del gioco sono abbastanza semplici e universamente conosciute, ma di sistemi per approcciarsi alle bocce ce n’è in realtà più d’uno. I principali sono tre: quello all’italiana, quello internazionale e quello “punto e volo”: «Le differenze fra i tre sistemi si incontrano innanzitutto nelle dimensioni dell’area di gioco e nella segnatura che divide le zone del campo» (Mario Antonio Arnaboldi, Atlante degli impianti sportivi, Milano 1982, p. 289). Nel sistema all’italiana si può andare a punto, cercando di accostare il più possibile al pallino la boccia lanciata, ma si può anche optare per la bocciata “di raffa” o per quella “di volo”. In entrambi i casi il giocatore dovrà dire in anticipo cosa intende colpire: nel primo caso il tiro sarà rasoterra, e si potranno colpire anche le bocce comprese in un raggio di 15 cm dall’obiettivo dichiarato; nel secondo il tiro sarà valido solo se la boccia avrà toccato terra entro un raggio di 50 cm dal bersaglio.

Il gioco delle bocce

È un gioco di bocce anche la pétanque, termine derivante dal provenzale ped tanco. Qui il giocatore deve lanciare la boccia con ipieds tanqués (giunti e ancorati al suolo) e le bocce sono di metallo, hanno un diametro di 7-8 centimetri e pesano dai 650 agli 800 grammi; il pallino (cochonet) è generalmente di legno, e il suo diametro è di circa 3 centimetri. Altre varianti delle bocce sono il flat green bowls (“bocce su campo piatto”), giocato su un «campo erboso livellato» (Mario Antonio Arnaboldi, Atlante degli impianti, cit. p. 295), e il crown green bowls (“bocce su campo erboso a dorso”), «disputato su un campo erboso che presenta nella zona centrale un leggero e graduale rialzo» (ibid., p. 297).

Il resto alla prossima puntata.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Giochi, le bocce: come giocavano i nostri avi e bisavoli

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Vecchi manuali

Un volume di Raffaele Bisteghi (Il giuoco pratico o sieno capitoli diversi che servono di regola ad una raccolta di giuochi più praticati nelle conversazioni d’Italia, Bologna 1820) contiene uno dei primi regolamenti italiani sul gioco delle bocce (pp. 25-28), che diventano qui bocchie; in Toscana erano originariamente pallottole, ma il senese ottocentesco le chiamava palline (Pietro Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano […], Firenze 1863, vol. II, s. v.).

Nel manuale di Bisteghi vengono descritti la formazione delle squadre («La divisione de’ Compagni si fa col tirar tutti al Bocchino, e quelli, che sono più vicini ad esso, devono indispensabilmente essere li Compagni. Anzi, chi volesse ritirarsi, intendesi di già perduto il giuoco», p. 25), le prime fasi di svolgimento di una partita («Ognuno nel giuocar la sua palla deve stare nel segno, in cui è stato il primo, e se non lo fa, ancorch[é] accosti al segno la sua Bocchia più degli altri, perde il punto fatto, resta nullo il segno, e per quella volta la Bocchia non fa giuoco alcuno», p. 25 sg.), gli eventuali incidenti di percorso:

Se nel tirare la Bocchia succedesse mai ad alcuno, che per qualche accidente la medesima gli uscisse di mano; allora, se la medesima non passa la distanza di due passi potrà ritirarla, e rifar il suo Giuoco, ma se passa il termine de’ passi due, gli converrà aver pazienza e il Giuoco s’intenderà valido (p. 27).

Se si gioca in sei, osserva il Bisteghi, si può dover contare l'”onore” della borzigola, «quando sono più vicine al segno tutte le tre Bocchie dello stesso partito, ed allora quelle tre Palle contano il doppio, cioè sei punti (p. 28). Un “onore” che può diventar doppio, giocando con otto palle, se le bocce dello stesso colore più vicine al pallino (il segno; balin, boggin a Milano; lecco, grillo, etc., in Toscana; etc. etc.) sono quattro; i punti diventano così otto, e la borzigola lascia il campo al borzigolotto. Un colpo del diavolo o una gioia – singola o doppia –, ecco quel che parrebbero suggerire i due termini dialettali: borzigola, barzigla, berzigla, ecc., attestati in testi del Settecento e dell’Ottocento bolognese e modenese in cui si parla delle bocce, potrebbero essere imparentati con berzigola ‘euforia, eccitazione’ (del frignanese) o con Belzebù: il bresciano ottocentesco barzigola, oltre al colpo da sei punti, è gergalmente il demonio (Vocabolario bresciano-italiano, compilato da Giovan Battista Melchiori, Brescia 1817, vol. I, s. v.). Più probabile, però, che il legame con le voci toscane verzigola e verzicola (alle carte indicano la napoletana, il «numero di tre carte andanti che si seguitano secondo l’ordine e valore stabilito dalle regole del giuoco», Giovanni Galvani, Saggio di un glossario modenese […], Modena 1868, p. 186) suggerisca l’idea di un verzierino o giardinetto: quello “recintato”, per così dire, dalle tre bocce vicine al pallino.

Non sempre però pari furon

Bisteghi parla di gare a sei, otto bocce, ma i bocciofili di un passato lontano erano abituati a gareggiare piuttosto con un numero di palle dispari. Per Carlo Malaspina sono nove (Vocabolario parmigiano-Italiano […], vol. IV, Parma 1859, s. v. zugàr al bòci), e così per Francesco Cherubini (Vocabolario milanese-italiano, Milano 1839, vol. I, s. v. bòggia); per Angelo Peri erano – con la precisazione: in origine – cinque o sette (Vocabolario cremonese-italiano […], Cremona 1847, s. v. gioch de boùgge).

Tra le varianti del gioco delle bocce la fornera: «Giuoco che si fa colle pallottole […] e in cui ognuno de’ giocatori, che possono essere in qualunque numero, ha una pallottola sola, e tira più vicino che può al grillo, chiamando dopo di sé il compagno e l’ultimo di essi gridando fornera (e a Lucca venga l’oste); e chi non dà questo avviso perde un tanto a seconda di quanto si è da prima convenuto fra i giocatori» (F. Cherubini, op. cit., s. v. giugà ai bocc). C’è anche la versione con il morto, giocata in due contro uno (chi gioca da solo si dice, osserva il Fanfani, «che ha il solo o ha il granchio», op. cit., vol. I, s. v. granchio), e quella che non ti saresti mai aspettata: le bocce quadre (o, meglio, cubiche).

Una necessità per gli appassionati della cittadina provenzale di Cagnes sur Mer che le ha inventate, altrimenti costretti a rincorrere le proprie bocce per le discese ripide del paese. Si gioca anche da noi, a Castellinaldo (Cn), Vigliano d’Asti e altrove, per rimediare alle stesse difficoltà geomorfiche della cittadina francese.

bocce quadre

di Massimo Arcangeli Sandro Mariani

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Giochi – I dadi: uni, bini, trini… Far diciotto è un bel filotto

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La storia dei dadi s’intreccia inestricabilmente, per l’intercambiabilità dei due termini presso tanti scrittori antichi, con quella degli astragali:

«L’astragalo è un ossicino di forma cuboide che fa parte dell’articolazione del piede. In alcune specie animali, come il bue e il montone, questo ossicino ha proporzioni particolarmente regolari e si presta in modo eccellente a essere utilizzato per ottenere dei risultati casuali, come una sorta di dado a quattro facce. Questo osso fu usato come strumento di gioco, ma soprattutto nella sua funzione di strumento per predire il futuro» (Vittorio Marchis, Storie di cose semplici, Milano 2008, p. 21).

In epoca remota, ma ancora fino a tempi piuttosto recenti, si giocava perlopiù ai dadi tirandone tre o quattro. Lo attesta la vecchia espressione tirar diciotto con tre dadi, che la terza edizione del Vocabolario dell’Accademia della Crusca (Firenze 1691, s. v. dado) spiega così: «trattare d’alcun negozio con ogni vantaggio possibile».

Tre erano anche i dadi che servivano per giocare alla zara. Era quasi il gioco ai dadi per antonomasia, e ce n’è un’eco nella Commedia di Dante:

«Quando si parte il gioco de la zara, /

colui che perde si riman dolente, / ripetendo le volte, e tristo

impara» (Purg. V, 1-3).

Mentre nel secondo tomo del suo Dizionario universale della lingua italiana (Livorno 1828), riferendosi a questo e “a diversi altri giuochi di sorte” giocati precedentemente con tre dadi, Carlo Antonio Vanzon osserva che i “moderni non ne usano che due” (s. v. dado), appena un anno dopo – ci torneremo più avanti – gli autori di un Dizionario delle origini invenzioni e scoperte, adattamento di una precedente opera francese, avevano scritto che i dadi per giocare erano tre. Se fosse uscito un triplo 6, in barba a Giovanni di Patmos e alle sue nefaste previsioni con oggetto il numero del nome della bestia (Apocalisse 13, 16-18), sarebbe stata festa grande per il fortunatissimo giocatore.

A dare un nome ai diversi colpi e alle possibili combinazioni dei dadi sono stati per primi i Greci, che allora pensarono ai «nomi degli Dei, degli eroi, degli uomini illustri, ed anche delle più famose cortigiane. Il più bel punto, come lo è pure tra noi, era tre volte sei, e punto di Venere, col quale indicavasi nei giuochi di sorte il getto o il colpo più favorevole. Il più tristo o più cattivo era quello di tre assi» (Dizionario delle origini invenzioni e scoperte nelle arti, nelle scienze, nella geografia, nel commercio, nell’agricoltura […], opera compilata da una Società di letterati italiani, Milano 1829, s. v. dado).

Assai meno poetico del “punto di Venere” (ma il risultato finale era identico) il termine senio; l’asso, il suo contraltare negativo (il triplo 1), era un tiro “da cani”.

«Gli antichi impiegavano come noi i dadi in diverse specie di giuochi. Gettavano per lo più tre dadi insieme, ed il tiro il più fortunato era quello, in cui tutti tre i dadi presentavano il numero sei. Chiamavano questo tiro senio. Il tiro più sfavorevole era poi quello, che non portava che tre unità, cioè uno per ciascun dado, e perciò lo chiamavano canis o canicula» (Dizionario compendiato di antichità per maggiore intelligenza dell’istoria antica sacra e profana e dei classici greci e latini […], traduzione dal francese migliorata e accresciuta T. I., Firenze 1821, s. v. dadi).

Perché il tiro più sfortunato fosse chiamato canis, ed è peggio ancora per canicula (‘cagnetta’), è tutt’altro che chiaro.

Il senio occupava la faccia opposta a quella assegnata all’asso o al cane, che gli scrittori latini chiamavano anche unio. Questo termine, che sarà stato presumibilmente anteriore, risulta però attestato per la prima volta in Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XVIII 65), che condisce il suo breve resoconto sul gioco dei dadi con un particolare gustoso: qualcuno chiamava allora i dadi anche “leprotti” (lepuscoli), perché si muovono a salti.

Le facce del senio e dell’unio erano arrotondate. Quelle occupate dalle quattro combinazioni corrispondenti che restano, quella di 2 (il binio) e quella di 3 (il trinio, o supino), quella di 4 (il quaternio, o piano) e quella di 5 (quinio), erano piatte. Specificazioni naturalmente inutili quando si giocava col farinaccio, praticato con un dado segnato su una sola faccia.

Il prosieguo della storia alla prossima puntata.

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Giochi, i dadi (II): c’è chi gioca e chi condanna

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Toscana: terra d’elezione per i dadi

Qualunque sia il numero di dadi da utilizzare per dadeggiare (Francesco d’Alberti di Villanuova, Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana, Lucca 1797, vol. II, s. v.) il gioco dei dadi permeava, fin dall’antichità, tutte le classi sociali: «Se il diluvio universale, assieme all’umanità, non avesse distrutto tutti i monumenti storici del tempo compreso tra Adamo e Noè, probabilmente troveremmo qualche prova o qualche indizio sufficienti ad avvalorare la credenza, che i primi abitatori della terra giuocavano coi dadi da mattina a sera» aldobrandeschi(Piccola enciclopedia di giuochi e passatempi per giovani ed adulti, a cura di J[acopo] Gelli, Milano 19223, p. 194). Sembra che Nerone ne portasse sempre con sé, arrivando a scommettere fino a 4.000 sesterzi su una sola gettata di dadi, e dei tre fratelli Ildebrandino, Guglielmo e Bonifacio Aldobrandeschi, giunti alle pendici del Monte Penna per una visita ad alcune proprietà di famiglia, si dice abbiano affidato ai dadi (1212) la decisione da prendere su chi di loro sarebbe stato riconosciuto signore e fondatore del maniero che avrebbero poi costruito a Castell’Azzara. Oggi Castell’Azzara è un comune del Grossetano di poco più di 1.500 anime; il suo nome deriverebbe dunque dal gioco della zara, e la fortezza riprodotta sullo stemma comunale, con le sue tre torri, ognuna con un dado alla sua sommità (la prima e più alta al centro, in onore del vincitore), ricorderebbe l’antica vicenda familiare.

Del gioco dei dadi, per rimanere in Toscana, avrebbe poi disquisito Galileo, in un brevissimo scritto (Sopra le scoperte dei dadi), a vantaggio dell’esperto giocatore di dadi – forse il Granduca di Toscana, che glielo avrebbe commissionato – che avesse voluto calcolare «tutti i vantaggi per minimi che sieno delle zare, degl’incontri, e di qualunque altra particolar regola, che in esso giuoco si osserva». In quel trattatello, d’incerta datazione (chi lo vuole composto nel 1596, chi lo attribuisce agli anni fra il 1612 e il 1613), lo scienziato avrebbe fornito una spiegazione delle maggiori probabilità di uscita di un certo numero:

«Che nel gioco dei dadi alcuni punti sieno più vantaggiosi di altri, vi ha la sua ragione assai manifesta, la quale è, il poter quelli più facilmente e più frequentemente scoprirsi, che questi, il che dipende dal potersi formare con più sorte di numeri: onde il 3. e il 18. come punti, con tre numeri comporre, cioè questi con 6.6.6. e quelli con 1.1.1 e non altrimenti, più difficili sono a scoprirsi. […] Tuttavia ancorché il 9. e il 12. in altrettante maniere si compongano in quante il 10. e l’11. perloché d’equal uso devriano esser reputati; si vede non di meno, che la lunga osservazione ha fatto dai giocatori stimarsi più vantaggioso il 10. e l’11. che il 9. e il 12».

La questione, già affrontata dal matematico Girolamo Cardano (1501-1576 ca.), che fu anche giocatore d’azzardo, in un’opera che sarebbe uscita postuma (Liber de ludo aleae), sarebbe stata ripresa da Blaise Pascal e Pierre de Fermat.

Santi contro “dadaiuoli”

Lungo lo stivale, per secoli, è stato tutto un fiorire di proibizioni contro il gioco dei dadi. Se nell’antica Roma, fin dall’età repubblicana, lo si poteva praticare solo durante le feste dei Saturnali, nel IV secolo sant’Ambrogio ammonisce i fedeli perché non arrivino a giocarsi a dadi la propria abitazione: «Non adiudices domum tuam ad ludum aleae» (De Nabuthae historia). Il vescovo di Milano affronta il tema anche altrove (De Tobia), e un catecheta africano di identità sconosciuta e più o meno a lui contemporaneo, forse vescovo a sua volta, ne tratta nel De aleatoribus, la «più antica testimonianza a noi pervenuta di catechesi popolare in latino» (Ambrogio di Milano, De Nabuthae historia, a cura di Stefania Palumbo, Bari 2012, p. 154):

«Che il gioco d’azzardo fosse, in questo periodo, particolarmente in auge è testimoniato dal fatto che nel concilio di Elvira, tenutosi in Spagna nella provincia Betica, presumibilmente tra il 300 e il 303, e al quale parteciparono i rappresentanti delle cinque province iberiche (Gallaecia, Carthaginensis, Tarraconensis, Lusitania, Baetica), vengono presi provvedimenti disciplinari contro i giocatori di dadi: il canone 79, ad esempio, vieta il gioco a dadi per denaro e stabilisce che il giocatore venga scomunicato per un anno e riammesso ai sacramenti solo dopo sincero pentimento e rinuncia definitiva al gioco» (ibid.).

La conclusione alla prossima puntata.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

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Giochi, i dadi come la peste (III): fra Rinascimento e Illuminismo  

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Principi e papi che vietano i dadi

giocatori-dadi-giocabolarioIl 7 gennaio 1590 viene emanato a Firenze un bando con cui si proibisce il gioco dei dadi, insieme a quello delle carte. «Sua Altezza Serezissima [sic]», in questo modo, vuol «provvedere a molti inconvenienti, di Bastemmie, Rubamenti e altre sceleratezze, che giornalmente nascono da Giucatori di Dadi, & Carte, & che in cambio di lavorare, & attendere alle loro botteghe, & alla loro famiglia stanno continuamente a giuocare per strade, & botteghe, contro gli ordini, & Bandi altra volta fatti» (Bando et prohibitione del giuoco di carte et dadi per la città di Firenze, et per lo Stato, et dominio fiorentino). La pena per i  trasgressori? Se sorpresi a sgarrare la prima volta un tratto di fune, la seconda tre tratti di fune, la terza la galera. E se minori? Pubbliche staffilate. Per riuscire a stanare il maggior numero possibile di colpevoli era stato anche escogitato un sistema per il quale un terzo della multa sarebbe andato al “notificatore”. Poteva accaparrarselo uno stesso giocatore; oltre a ricevere l’agognato premio in denaro, avrebbe liberato «se stesso da ogni pena per tal fatto incorsa» (Bando e prohibitione del giuocare a qual si voglia sorte di giuoco a dadi, 18 luglio 1594).

Vita dura per i giocatori e per gli spettatori, soggetti alla «medesima pena […] come se effettualmente giucassino» (Bando et prohibitione del giuoco cit.). Identica storia nello Stato Pontificio. Anche qui un bando, affisso il 10 settembre 1591, dopo aver annunciato pene corporali ai danni dei giocatori di dadi, ne aggiunge l’estensione a chi semplicemente assista (Bando contra quelli che vendono & giocano a dadi). Un altro bando, lì pubblicato il 27 aprile 1590, aveva giudicato il gioco dei dadi «scandaloso & pernicioso» (Bando contra quelli che giocano a dadi).

Come la peste, ma ci si fa l’abitudine

I giocatori di dadi dovevano guardarsi dalla legge degli uomini ma temere altresì il giudizio di Dio, che «fulmina sentenza di morte, e pena infernale per bocca del grande Profeta Isaia, e secondo l’esplicatione di S. Antonino». Così un gesuita, Giovanni Domenico Ottonelli (1584-1670), nella Parenesi prima a’ giucatori […] di carte, o di dadi. Operetta raccomandata a’ zelanti predicatori (Firenze 1659). Ci va giù altrettanto pesante un altro gesuita, padre Cesare Calino:

Un giuoco assistito dal Demonio, contrario alle rinuncie del Santo Battesimo, mortalmente reo, che mette in pericolo la vita eterna, è peccato, anzi peccato mortale! per sentimento de’ Santi Padri tale è il giuoco delle Carte, e de’  Dadi: dunque il giuoco delle Carte, e de’ Dadi, per sentimento de’ Santi Padri è peccato, anzi peccato mortale. (Lezioni teologiche, e morali sopra il giuoco, Venezia 1717, tomo V, p. 32)

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Disprezzava i dadi anche un padre predicatore spagnolo, Pietro di Cobarubias, che non li chiama però in causa con riferimento alla vita extraterrena. Li mette invece in relazione con l’arte dei cavalieri: dovrebbero “giocare” con la balestra anziché ai dadi, perché quello dei dadi è «giuoco di ruffiani, di buffoni & chiarlatani [sic]» (Rimedio de’ giuocatori […] nuovamente di lingua Spagnuola tradotto dal s. Alfonso Ulloa, Venezia 1561, p. 15).

Tutto questo sarebbe in ogni caso servito a poco. Due secoli dopo sarebbe stato necessario sorvolare sulle abitudini della popolazione. Constata Giuseppe Antonio Costantini (1692 ca.-1772), che pure arriva a paragonare il gioco dei dadi alla peste:

 

Non senza ragione […] le Leggi tutte hanno condannato il giuoco de’ Dadi, e delle Carte; e benché in ora lo tollerino, egli è perché non possono impedirlo; essendo appunto come la peste, la quale, finché ha infettato poche persone, è facile l’estirparla; ma allorché si è diffusa, conviene abbandonare ogni altro pensiero, ed applicare a seppellire li morti. Bisognerebbe perciò, che per fare esequire le Leggi contro del giuoco, i Principi lasciassero ogni altra cura, per estirpare quella orribile infezione; il che essendo imposibile, sono costretti a tolerarla. (Lettere critiche giocose, morali, scientifiche, ed erudite, alla moda, ed al gusto del secolo presente […], tomo III, Venezia 1751, p. 124)

Se una qualunque peste dilaga, insomma, tanto vale conviverci. Una considerazione molto attuale.

Massimiliano Arcangeli, Sandro Mariani

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Giochi, ‘footgolf’, a metà strada tra calcio e golf: un po’ inglese ma molto italico

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Padri olandesi, campioni ungheresi

Polo, bermuda o pantaloni lunghi, gatsby o analogo berretto, calzettoni a rombi fino al ginocchio, scarpe da calcetto senza tacchetti. Non stiamo parlando di calciatori spiritosi o eccentrici ma di serissimi giocatori di footgolf, impegnati a far rotolare un pallone in apposite buche.

Il footgolf, nome nato dall’unione di football e golf, è un gioco relativamente recente. Si pratica su campi da golf di 9 o 18 buche provvisorie, dal diametro di 53 cm, collocate generalmente lungo il rough (e, in ogni caso, lontane dal green), e sta conoscendo una rapida diffusione in tutto il mondo, con migliaia di appassionati e competizioni che spaziano dalla Coppa del Mondo alle tappe cittadine nei campi di provincia (o addirittura nei parchi). La nazione da battere è l’Ungheria, che nel primo campionato mondiale di footgolf, disputato nel giugno 2012 e giocato dai magiari in casa, ha conquistato tutti e tre i gradini del podio con Béla Lengyel, Peter Nemeth e Csaba Feher; giusto però evidenziare che gli atleti ungheresi ai nastri di partenza erano allora più numerosi di quelli delle altre sette nazioni partecipanti: Argentina, Belgio, Grecia, Italia, Olanda, Messico, Stati Uniti. Il prossimo appuntamento, previsto per il 2015, sarà probabilmente in Argentina.

Non c’è unanimità su dove sia nato ufficialmente il footgolf. Le sue prime apparizioni risalgono al 2006, ma il merito di averlo reso un fenomeno mondiale, anche grazie ai servigi di un ambasciatore eccellente (l’ex attaccante olandese Roy Makaay), spetta ai Paesi Bassi: nel settembre 2009, su un’idea di Michael Jansen, creativo di origine australiana, si disputò in quel paese il primo National FootGolf Championship.

Sono attualmente 25 le federazioni nazionali riunite nella Federation for International FootGolf (Fifg), fondata nel giugno 2012: a sette delle otto prima menzionate (va esclusa la Grecia) si aggiungono il Regno Unito, dalla grande tradizione golfistica, e poi Australia e Austria, Canada e Cile, Colombia e Francia,  Germania e Norvegia, Polonia e Panamá, Portogallo e Puerto Rico, Sudafrica e Spagna, Svizzera e Turchia; ultimi arrivati gli Emirati Arabi Uniti. Il nostro paese partecipa al gruppo dei “magnifici 25” con l’Associazione Italiana FootGolf (Aifg). Fondata il 12 aprile 2012, è l’unica riconosciuta ufficialmente, dal primo gennaio dell’anno passato, dalla FIFG; a rappresentare il footgolf, in Italia, c’è però anche una Federazione Italiana FootGolf (F.I.F.G.).

footgolf

Poche facili regole

Il footgolf ricalca in sostanza il golf, con cui condivide anche il campo da gioco e i vari ostacoli presenti sul terreno di gioco: colline, bunker, banchi di sabbia, alberi e boschi, stagni e ruscelli. Rispetto al golf c’è però qualche differenza: mancano i caddie e le mazze, sostituite dalle gambe dei giocatori. Che devono aver forza nelle gambe (un tiro può raggiungere i 200 metri), ma anche essere in grado di scegliere il “colpo corto” (putt) più adatto – di punta, di suola, di piatto – per imbucare il pallone. Vince chi giunge alla fine del percorso con il minor numero di tiri.

Se le regole di gioco non sono molto complicate, è più arduo trovare un campo adatto: servono buche da 50 cm (circa 11 cm quelle tradizionali nel golf). Dato il mix perfetto di concentrazione, precisione e freddezza, sono molti a sostenere che per riuscire nel footgolf bisogna essere prima di tutto buoni giocatori di golf. Altri non hanno invece dubbi a indicare nei campioni del football i “predestinati” per eccellenza, per la potenza e la tecnica necessarie a calciare e far viaggiare la palla; tra gli appassionati di footgolf sono difatti moltissimi i calciatori: dagli olandesi Frank de Boer e Ruud Gullit ai francesi Jean-Pierre Papin e Christian Karembeu, dai sudamericani Diego Forlán e Juan Sebastián Verón agli italiani Marco Ferrante, Michele Padovano e Gian Piero Gasperini.

Ci sono anche footgolfers che non hanno nulla a che spartire né con il mondo del golf né con quello del calcio, come l’ex ginnasta Igor Cassina. Campioni (o, più spesso, ex campioni) di calcio o di golf, sportivi di altre discipline o semplici appassionati, per tutti i cultori del footgolf l’obiettivo è comunque uno solo: hole in one.

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Cluedo: scrissi, dedussi, vinsi…

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Elementary, my dear Watson!

Il massimo sarebbe riuscire a emulare Sherlock Holmes, ma può dare qualche soddisfazione anche scoprire l’assassino del dottor Black (nella versione nordamericana: Mr Boddy) fra i sei sospettati: Miss Scarlett (“la signorina Scarlatta”); Professor Plum (“il professor Prugna”); Mrs. Peacock (“la signora Pavone); Reverend Green (“il reverendo Green”) o Mr Green; Colonel Mustard (“il colonnello Mostarda”); Mrs. White (“la signora Bianca”). Stiamo parlando di Cluedo, un gioco da tavolo inventato da un pianista di Birmingham appassionato di Arthur Conan Doyle, Raymond Chandler, Edgar Wallace, ma che non disdegnava Agatha Christie. Il suo nome era Anthony E. Pratt (1903-1994), e quel gioco – l’aveva chiamato Murder! – l’aveva ideato nei primi anni Quaranta. Aveva fatto domanda per brevettarlo nel 1944, ma gli era riuscito di ottenere il brevetto solo tre anni dopo.

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La parola Cluedo intreccia il lat. ludo (‘io gioco’) e l’ingl. clue (‘indizio’), che è anche il nome con cui il nuovo passatempo, messo in commercio nel 1949, è conosciuto in Canada e negli Stati Uniti. A portarlo al successo anche la sua semplicissima formula. C’è da indovinare, oltre al colpevole, dove e con quale arma è stato commesso il delitto. Per arrivare alla triplice soluzione, consistente in tre carte inserite in una busta chiusa (una per indicare il colpevole, le altre due il luogo e l’arma del delitto) sostitutiva del cadavere e abbinata prima a uno scantinato e successivamente a una piscina, ogni giocatore avanza delle ipotesi in base alle carte in suo possesso e a quelle che gli hanno fin lì fatto vedere i suoi avversari: chi viene dopo di lui deve mostrare infatti segretamente a chi possiede il turno, quando quest’ultimo ha fatto la sua ipotesi, una carta al massimo (se ce l’ha) che ne smentisca la ricostruzione. Una carta, se è in mano a un giocatore, non può naturalmente essere nella busta. Vince il primo che formula un’accusa precisa su chi abbia commesso il misfatto, indicandone anche il luogo e l’arma. Chi prova a farlo, ma non individua tutti e tre questi elementi, esce dal gioco: si può quindi formulare un’accusa una sola volta, avendo avuto cura di annotare precedentemente, sul taccuino in dotazione a ciascun giocatore, le diverse possibilità.

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Come poteva essere, come fu, come sarebbe cambiato

In partenza i personaggi previsti da Pratt, compresa la vittima (prima di diventare tale), erano dieci. Sarebbero poi diventati gli attuali sei. Mr. Brown (“il signor Marrone”), Mr. Gold (“il signor Oro”), Miss Grey (“la signorina Grigia”) e Mrs. Silver (“la signora Argento”) furono tagliati già nella prima edizione del gioco, che avrebbe visto Nurse White (“l’Infermiera Bianca”) e Colonel Yellow (“il Colonnello Giallo”) diventare Mrs. White e Colonel Mustard. Le armi in miniatura, nell’idea iniziale, erano nove (un’ascia, un attizzatoio, un bastone, una bomba, una bottiglia di veleno, una corda, un pugnale, un revolver, una siringa ipodermica), e sarebbero diventate a loro volta sei: un candeliere, una chiave inglese, una corda, un pugnale, un revolver, una spranga di piombo. Undici, invece, gli ambienti dell’abitazione che sarebbe diventata la Tudor Hall: una biblioteca e una cucina, una sala da ballo, una sala da biliardo e una sala da pranzo; un atrio (hall) e una veranda (conservatory); un soggiorno (lounge) e uno studio (study); una cantina (cellar) e una stanza d’armi (gun room).

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Nella prima versione commercializzata del Cluedo le undici stanze sono ridotte a nove, con l’eliminazione delle ultime due. Nella seconda versione, dei nove ambienti precedenti, sopravvivranno solo la cucina e la sala da pranzo; gli altri saranno sostituiti da una dépendance e una terrazza, un ingresso e una spa, una sala home-theatre, un soggiorno e un osservatorio. La seconda versione amplia il numero delle armi, e non tutte le precedenti si conservano. Resistono il candeliere e la corda; ritornano l’ascia e il veleno; la chiave inglese e la spranga lasciano il posto a un trofeo, un manubrio, una mazza da baseball; il revolver lascia il passo a una pistola, il pugnale a un coltello.

È in parte la storia di un’americanizzazione, ma la tradizione riesce a tenere qua e là. In terra inglese il vecchio pugnale (dagger) non ha ancora ceduto al nordamericano e più moderno coltello (knife).

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