Quantcast
Channel: Giocabolario – Il Fatto Quotidiano
Viewing all 139 articles
Browse latest View live

Tombola: il 47, il 48 e gli altri numeri

$
0
0

Numeri mortuari

L’abbiamo già osservato l’anno scorso, nel post con cui s’inaugurava questo blog: a Napoli è il numero 48 a rappresentare alla tombola o muorto che parla; il 47 è lapidariamente – e pour cause, vien da dire –  o muorto. Nella filmografia di Totò, sulla loquacità del caro estinto, aggiungevamo allora, non c’è solo la pellicola che, nel 1950, il numero 47 l’ha incoronato. Il principe della risata, tredici anni più tardi, in una scena da antologia degli Onorevoli, avrebbe nuovamente gridato il 47 e qualcuno avrebbe prontamente risposto: «Morto che parla!».il morto 47

L’abbinamento del 47 al “morto che parla”, nel gioco della tombola, se per un napoletano suona come un affronto (o un’eresia), a chi di Napoli non è appare normale, e l’apparentamento al 48 una specificità partenopea. Anche in altre zone della penisola, quando parla, il morto corrisponde perlopiù al 47.

è così a Chioggia e a Fabriano, a Foggia e a Livorno, a Tivoli e in diverse città siciliane, per es., o ancora a Lodi (“El mort che parla”). Qui i riferimenti funerei si compongono in florilegio: “La tumba, l’om che parla” (48); “El füneral in grand” (76); “Miŝél”, custode del cimiteri» (49); “La mort impruiŝa” (58); “El füneral” (79), insieme alle “scale del tribünal”; e alla casella 13, in condominio con “el menagram”, ricompare “la mort”.

C’è poi il caso di Venezia, che di associazioni mortuarie al 47 e al 48, quali che siano, non vuole invece saperne. Nei Giochi e indovinelli popolari veneziani di Domenico Giuseppe Bernoni (Venezia, Filippi, 1968) c’è un “Morto” al 50, una “Morta resusitada” al 37 e nulla più; la casella 47 risponde con “S. Luca protetor dei bechi o dei marii”, la 48 con “I Santi Apostoli. I gobi de’ Santi Apostoli. Governo provisorio”.

Nomenclature popolari: uno spaccato di Roma

Gustose minirassegne di ricreazione popolaresca dei numeri della tombola sono due poesie dialettali, entrambe di provenienza romana (Antonio VendittiLa tombola di Natale rallegra “casa nostra”,

Il primo componimento è un sonetto di Pietro Gibertoni, vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo:grande tombola

«Allora, cominciate a perde er fiato!
Trentuno, trenta, trentatré». — «E smucina!».
«Cinquanta e sessantuno rivortato,
trentotto». — «E daje giù co’ sta trentina!».
«Dieci, pulenta, ventisei, Pilato…».
«Tireme er ventinove, Teresina!».
«Ecchelo er ventinove. L’ha chiamato!».
«Davero? Allora ecchela qua: cinquina!».
«Sta fermo co’ le mano”. Sei, pangiallo».
«Ma de chi so’ sti piedi? È ’na disdetta,
è ’n’ora che me stanno a pista’ un callo!».
Pietruccio, tonto già dar vino e er sonno,
se sbaja co’ li piedi de Ninetta
e pista invece quelli de su nonno»

Il secondo componimento è di Antonio Ilardi, e darebbe conto di una partita di tombola giocata nel lontano 1883 (Antonio Venditti, La tombola di Natale, cit.):

«’Mbè je la famo?… Tiro?… Sete pronte?».
«Aspetta, famme mette armeno a sede…».
«Tira piano…». – «Che sete sorde e tonte?».
«Da sta parte nemmanco ce se vede!».
«Fatte impresta’ l’occhiali dar Curato!».
«Stateve zitto, là… Perdete er fiato».
«Magara tutto!…». – «E daje?…». – «Purcinella [75],
La Purce [38], li Pollastri [27], er sor Ninetto [1],
Moneta [26], Madre [52], Pena [51], Carettella [22],
Bacio [2], la Caponera [14], er Diavoletto [13],
Er Prete [28], er Fiume [81], avò, Papa Leone [58],
Zero, er più vecchio [90], er Gatto [3], un bel Lampione [10]».
«è uscito er venticinque?…». — «Sta in padella!».
«Statece attenta…». — «Che ’n se po’ arisponne?».
«Tavola apparecchiata [44], la Barella [16],
li Pidocchi [37], le Gamme delle Donne [77],
Er Frate [43], li Palloni [88], la Lanterna [54]…».
«Abbasta!!! Sì ’um me sbajo è la quaterna».
«Che culo!». — «Cuminciamo a uprì er soffietto?».
«State zitte, nun fate confusione».
«Che te fa tazza? Magnete l’aietto».
«Si seguita accusi fo’ Napulione.
Tiro?… Er Natale [25]…». — «Mette Crementina…».
«Basta!» — «Colla medesima: cinquina!».
«Daje!…». — «Scànnete». — «È escito er trentanove?».
«Sta a mollo, che s’asciutta!» — «Gallinaccio [6],
Fratello [89]». — «Sta defora er dicinnove?».
«Vierrà!». — «Cortello [41], Foco [8], Campanaccio [9],
La Pulitica sporca [39], Imbriacone [19].
«Tommola!». — «Je s’è aperto er chiccherone».
«Reggistra si ciammanca quarche palla…».
«Hai voja a baccajane, mo’ è finito…».
«L’ha contate du’ vorte, Rosa e Lalla».
«Ma conta». — «Va a contalle a tu marito».
«Storcete puro er collo, faccia bella…».
«è pagabile a vista… la cartella!».

Ogni commento è superfluo.

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani

The post Tombola: il 47, il 48 e gli altri numeri appeared first on Il Fatto Quotidiano.


Scopone: da Giuseppe Verdi a Sandro Pertini, il gioco che racconta l’Italia

$
0
0

pertini 675

Quella partita dell’ottantadue

Pochi giochi o sport possono essere presi a esempio per raccontare le vicende (recenti) del nostro Paese. Tra questi il calcio e lo scopone, fra le cui varianti c’è il defunto scopone “a tre fasi”, nel quale la prima coppia che abbia totalizzato 11 punti “si può chiamare fuori [;] […] vince una singola posta se gli avversari hanno più di 4 punti, doppia se ne hanno da 1 a 4, tripla in caso di cappotto” (Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti, Dizionario dei Giochi […], Bologna, Zanichelli, 2010, p. 937 sg.), qualora non abbiano cioè incamerato, fino a quel momento, nessun punto. Ma un mix vincente fra calcio e scopone è stato immortalato da una celebre pagina che merita di essere brevemente raccontata.

12 luglio 1982. A bordo di un DC9 3113, sul volo da Madrid che riporta a casa la Nazionale neocampione del mondo, Sandro Pertini, in coppia con Dino Zoff, sfida Franco Causio e il ct Bearzot in una partita di scopone. Il match si conclude con un errore dell’amato presidente, che regala la vittoria agli avversari e s’infuria. Il 1° giugno 1983 il portierone azzurro decide di appendere le scarpette al chiodo, e Pertini coglie l’occasione per ammettere il suo errore nel telegramma che gli invia due giorni dopo: “Caro Zoff, io non dimenticherò mai la tua bravura nel Mundial a Madrid et la tua bonarietà quando tuo compagno in una partita a scopone sull’aereo che ci riportava a Roma ti ho fatto perdere”.

Così, molti anni dopo, avrebbe raccontato l’episodio il “barone” Causio a un giornalista della Gazzetta dello Sport, Giuseppe Bagnati: “Ero in coppia con Bearzot, il presidente con Zoff. Io feci una furbata: calai il sette, pur avendone uno solo. Pertini lo lasciò passare e Bearzot prese il settebello. Abbiamo vinto così quella partita”. Ben più di un gioco, come nelle partite al cardiopalmo di un capolavoro di Luigi Comencini: Lo scopone scientifico (1972). Fu lo stesso regista a voler definire il film una “favola molto giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti” (Federico Rossin, Lo scopone scientifico, in Luigi Comencini. Il cinema e i film, a cura di Adriano Aprà, Venezia, Marsilio, 2007, p. 187).

Altri giocatori eccellenti

Lo scopone è un “gioco matematico, non di intuizione, non di fantasia. E quindi si può giocare quasi alla perfezione. Su dieci carte può capitare una volta che un buon giocatore giochi diversamente da un altro buon giocatore”. È la risposta di Giorgio La Malfa a una domanda (“Quale è la particolarità dello scopone?”) di Pasquale Nonno, già direttore del Mattino (Per gioco. Fatti, avvenimenti, persone, personaggi, giocatori, politici, cavalli e giornalisti. Per riflettere tra la Prima e la Seconda Repubblica, Napoli, Guida, 1997, p. 54). Nell’intervista l’esponente repubblicano, che racconta delle partite, consumate nelle pause tra una votazione parlamentare e l’altra, con i colleghi forzisti e comunisti, risponde così a un’altra domanda (“Che intendi per gioco matematico?”) di Nonno: “Bisogna applicare con intelligenza una teoria. Le regole sono come un manuale militare. Il campo di battaglia sono le carte distribuite” (ibid., p. 55).

Un appassionato giocatore di scopone, ma evidentemente poco esperto, fu anche Giuseppe Verdi. Le partite gliele organizza la moglie Peppina, che prega “di non farlo perdere affinché […] non smarrisca quell’aria sorridente con cui si accinge alla sfida, fiero della sua abilità di giocatore. Spesso la compagnia delle carte è composta dal senatore Piroli, dall’avvocato Della Bianca, dal generale Corvetto e da De Amicis, incaricato dallo stesso Verdi di acquistare due mazzi di carte francesi da 52 da un rivenditore di Genova […]. Gli avversari, ogni volta, rispettano la volontà della Peppina, che chiede loro anche di non mostrare di giocare male intenzionalmente per evitare burrascose reazioni. Un giorno, però, un giocatore si lascia accorgere del trucco: Verdi allora getta arrabbiato le carte sul tavolo e si ritira nelle sue stanze. Vuole sì essere il primo, sempre, ma non accetta di essere preso in giro” (Mauro Lubrani, I lieti calici di Verdi. Il vino, la cucina, le donne, la salute nella vita del Maestro, Correggio [RE], Wingsbert House, 2013). Un carattere focoso, il suo. Come quello di Pertini.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

The post Scopone: da Giuseppe Verdi a Sandro Pertini, il gioco che racconta l’Italia appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Linguaggio: guarda come t’inverto le sillabe

$
0
0

“Non mangio roast beef, / è l’anagramma di sbirro!” (Tanta roba, 2009). Versi tratti da un motivo dei Club Dogo, un terzetto di cantanti hip hop milanesi che hanno ben oltrepassato i trenta; roast beef non è l’esatto anagramma di sbirro, ma pronunciato all’italiana (rosbif) ne riproduce quasi esattamente l’inversione sillabica: (r)rosbi. “Ti do questa notizia in conclusione: / notizia è l’anagramma del mio nome” (Indietro, 2008). Questo era Tiziano Ferro, è stavolta il gioco di scomposizione e ricomposizione è perfetto.

Nel 2007 è morto il caratterista bergamasco Guido Nicheli, “cummenda” in un film diretto da Carlo Vanzina (Sapore di mare, 1983); giunto al successo nella serie tv in cui indossava i panni di un commerciante d’insaccati (I ragazzi della III C), veniva da un passato da comico nei locali notturni milanesi: era soprannominato Dogui, perché si divertiva a rovesciare le parole. In una scena di un altro film di Vanzina (Il ras del quartiere, 1983) il protagonista, Diego Abatantuono (Domingo), così dialoga con Mauro Di Francesco (Jena), altro caratterista milanese:

J: Te devi presentarti col nogra, eh. Te devi guizzare il nogra. Tocapi? […] È un modo tosto per esprimersi.
D: Cioè al contrario, praticamente.
J: Eh, yes.
J: Treno diventa notre. Casa, saca. Cinque, quinci. È un modo di parlare senza farsi capire, eh. È un gorge, un gergo.
D: Cioè un specie di slang.
J: Yes.
D: Cioè, interessante come schema. Se tu volessi dire babbo dici bobolo.
J: Eh no, no; no no. Solo le parole determinate per mescolar le carte.
D: Carte, terca.
J: Vobra.
D: Allora bambino si dice nobambi.
J: Yes.
D: Bambina?.
J: Nabambi. E sfiga?.
D: Gasfi.
J: Of course. Vedi che quando vuoi capisci.
D: Eh per forza, quando voglio capisco. Of course, di corsa. Per esempio per dirti non ho i soldi da darti allora devo dire io non ho i dilso da dirta.
J: CS, ci sei […]. Hai acchiappato il linguaggio.

È lo spirito del verlan – inversione della pronuncia semplificata di l’envers –, documentato in origine come verlen. Conosciuto almeno dagli anni Trenta del Novecento, come gergo criminale, si affaccia in un romanzo di Auguste Le Breton, il padre del poliziesco di “mala” (Du Rififi chez les hommes, 1953); la voce calibre (‘revolver’) diventa qui brelica, che lo scrittore bretone, in Langue verte et noirs desseins (1960), dice molto diffusa ai tempi dell’occupazione tedesca durante il secondo conflitto mondiale. Fra i tanti precedenti Torgotlar (1850) per l’Argoteur, come nomignolo; Lontou (1842) per Toulon, a indicare la prigione; Louis XV (quinze) diventato Sequinzouil (1760 ca.); Bonbour (1585) per Bourbon, la famiglia reale. Anche Voltaire trasse il suo pseudonimo da Arouet L(e) J(eune) – in scrittura capitale quell’Arouet diventava AROVET – o da Airvault, la cittadina di cui era originaria la sua famiglia. Il pensiero corre al nostro Trilussa, pseudonimo di (Carlo Alberto) Salustri, e a François Rabelais: usa lo pseudonimo di Alcofribas Nasier nel primo (Pantagruel, 1532) dei cinque romanzi del suo ciclo; è Séraphin Calobarsy, la versione originaria del personaggio di maistre Theodore, nella prima edizione del secondo (Gargantua, 1534).

Tutto il mondo (giovanile) è paese

Il verlan continua a mantenersi vivo anche grazie ai nuovi ingressi, alla “riverlanizzazione” di qualche parola, all’apporto di una varietà di francese giovanile parlata nelle banlieue parigine (non solo dai figli di immigrati): mescola voci di origine araba o zigana e interviene sull’intonazione del francese, modulandola su sonorità rap. I giovani italiani e i loro cugini transalpini non sono però i soli a ricorrere a palindromi, anagrammi e fenomeni analoghi, che, pur non sempre legati al fattore età, sono quasi “universali” generazionali. A non tener conto dei reperti antichissimi, e dei riscontri offerti da altre moderne nazioni o aree geografiche (il Camerun, il Sud-est asiatico, le isole caraibiche di San Blas, ecc.), in Gran Bretagna c’è il back slang; in Irlanda (e ancora in terra inglese) lo shelta, parlato dal popolo nomade degli Irish Travellers; in Grecia il podanà (ποδανά, da ανάποδα ‘sottosopra’); in Sudamerica il vesre, inversione dello sp. revés.

Gotan Project è il nome di una band, formatasi nel 1999, composta da uno svizzero, un francese, un argentino. Mette insieme il tango e la musica elettronica; e quel gotan sta ovviamente per tango. È appunto un esempio di vesre e rinvia, più esattamente, a quell’ibrida mescolanza di lingue (inglese, francese, gallego, portoghese, quechua, ecc.) di base lessicale italiana, soprattutto genovese, parlata principalmente nella regione di Buenos Aires e qui nota dalla seconda metà del XIX secolo. Risponde al nome di lunfardo, o più familiarmente lunfa, e fa incetta di altri anagrammi più o meno perfetti: chochamu per muchacho (‘giovane’); colo per loco; davi per vida; zabeca per cabeza.

Una ludica galassia linguistica tutta da esplorare.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

The post Linguaggio: guarda come t’inverto le sillabe appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Giochi: se non Rosiko non Risiko. Come ti conquisto la Garbatella o il Vaticano

$
0
0

Dialetti sempreverdi

2004. La Padania approfitta della riforma del codice della strada per dotare di una doppia indicazione, in italiano e in dialetto, i cartelloni stradali (Bergamo/Berghem). La goliardica Roma di Pasquino di tanti libri e tanti film, come Nell’anno del Signore di Luigi Magni, risponde per le rime: uno spassoso libretto di Tonino Tosto, intitolato Roma de cartello (Roma, Edizioni Edup), traduce in romanesco insegne di negozi e segnali stradali. Il dosso diventa un saliscegne, lo stop uno stoppe, l’incrocio pericoloso un capocroce a risico, il segnale di rimozione della vettura abbada, te se la caricheno. Una salita ripida? Salita si je la fate. Attenti al tram? Abbadate ar tranve. Il divieto di inversione a U? Proibito annà a cartoccio. La sosta vietata? Qua nun ve potete appoggià. I lavori in corso? Stamo a lavorà. Il tutto accompagnato da vignette e da sestine che avrebbero fatto invidia al grande Belli.

2005. Rai Tre trasmette in estate Walter e Giada, una real fiction ideata da Fabrizio Rondolino e Simona Ercolani. È una versione, sempre in romanesco, dei Promessi Sposi. La voce narrante fuori campo, nei panni di Manzoni, è di Nino Castelnuovo. L’Innominato è un onorevole, Don Rodrigo un affermato notaio della capitale. Renzo fa il tassista, Lucia è una prosperosa ragazzotta dalla vocina irritante; si scambiano di continuo tottiani amo’ e teso’, intervallati dalle uscite bonariamente scorrette di Agnese contro i “selvaggi” thailandesi.

2009. Il 18 agosto esce su Il Mattino, in prima pagina, una scoppiettante traduzione napoletana di un discorso di Umberto Bossi, “affidato ai dispacci Ansa”; la firma è del leader leghista, ma l’autore è un linguista e un dialettologo (Nicola De Blasi). Il pezzo iniziava così: “Quanno cantammo l’inno nuosto, ’o Va’ penziero, tutte quante ’o cantano pecché ’e pparole ’e ssanno tutte quante, no comme a chillo italiano ca nun ’o sape nisciuno. Si tutto nu popolo, meliune e meliune ’e perzune, sanno ’o Va penziero e ’o cantano cu piacere, vò ricere ca int’’o core r’’a gente sta cagnanno tutte cose, anze tutt’è cagnato già. All’alta Italia, int’’e scole r’’a Patània, comme inno r’’a Nazione nun faceveno ’mparà Fratelli d’Italia, ma ’O Piave murmuliava”.

Tutte le strade (espressive) portano a Roma

La versione partenopea del “puro pensiero bossiano” si concludeva con la sostituzione di “Roma mariola” a “Roma ladrona”. Sempre lei, la capitale. In Roma de cartello ce la figuravamo percorsa da automobilisti o pedoni, nel Rosiko! viene calpestata da eserciti in guerra.

Scioperi dei mezzi pubblici, cortei e manifestazioni, maltempo e strade dissestate, presenza di isole pedonali. Una breve lista di “pericoli romani” facilmente estensibile. Chiunque voglia impegnare la propria armata in un’offensiva, anche solo contro il quartiere più vicino, pensi bene a tutte le sue mosse: i suoi soldati potrebbero rimanere imbottigliati nel traffico. Un rischio da correre, in ogni caso, per il piacere di invadere la Garbatella o espandere il proprio dominio al di fuori del Grande Raccordo Anulare, fino a Settecamini o a Tor Vergata. E vuoi mettere la conquista della Jacuzia a fronte dell’ebbrezza di poter sottomettere l’Urbe Antica?

rosiko-1

L’idea è venuta a due giovani, Niccolò Gori Sassoli e Giovanni Belia (rimproverati per avere però escluso alcuni quartieri romani dal loro gioco), ma il loro Rosiko! non è stato il primo. Nel dicembre del 2012 la Materatown Games aveva lanciato il suo: i giocatori, “dopo aver estratto il nome di un politico e/o di un alto dirigente della Regione Basilicata d[ovevano] indovinare il suo ultimo reddito dichiarato e, ove presente, il numero di immobili posseduti e/o le auto di proprietà”. Nel maggio del 2013 sarebbe stata la volta del Rosiko! Distruggi i nemici di Salerno ideato dai Figli delle Chiancarelle, oppositori di Vincenzo De Luca (allora sindaco della città) e già ideatori di un Salernopoly.

rosiko-2 (1)

Sulle carte del Rosiko! romano, rimbalzato alle cronache a metà gennaio 2014 ma già annunciato su Twitter, dalla Tic Edizioni, alle 9.29 del 12 dicembre 2013, si stagliano le figure dell’inflessibile vigile impersonato da Alberto Sordi, di un condottiero a cavallo che arieggia il Marco Aurelio già svettante in Campidoglio, di una bella bicicletta. Desiderio impossibile per un romano. Più chimerico di un’astronave.

rosiko-3

The post Giochi: se non Rosiko non Risiko. Come ti conquisto la Garbatella o il Vaticano appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Rischiatutto, di Mike ce n’è uno solo

$
0
0

“Fiato alle trombe, Turchetti!”

mikebongiornointernaA volte ritornano. Per ora è in pillole. Il 21 e 22 aprile se ne realizzeranno due puntate pilota su Rai1. In ottobre approderà in pianta stabile su Rai3. Parliamo del Rischiatutto, riesumato in una nuova versione affidata alla conduzione di Fabio Fazio. Il telequiz, che debuttò il 5 febbraio 1970, chiuse i battenti nel 1974; era venuto dopo gli straordinari successi di Lascia o raddoppia (1955-1959) e Campanile sera (1959-1961), per citare solo i precedenti più noti. La parola telequiz circolava già negli avanzati anni Cinquanta, a ridosso dell’apparizione sul piccolo schermo dei primi giochi a premi; il genere, nato negli Stati Uniti nei secondi anni Quaranta, era qui approdato prima alla radio (1946) e poi in televisione (1949).
Per inquadrare la misura del successo della trasmissione condotta da Mike Bongiorno basta un rapido sguardo ai numeri. Le puntate del Rischiatutto erano seguite in media da 20 milioni di telespettatori, un risultato stratosferico per il secondo canale Rai. La punta massima della trasmissione, in termini di ascolti, fu raggiunta nell’ultima puntata dell’edizione del 1972. Era il 10 giugno. Allora circa 32 milioni di italiani rimasero incollati al televisore a seguire le gesta dei tre finalisti: Massimo Inardi, Andrea Fabbricatore e Marilena Buttafarro.

Mike, maestro “collaterale” d’italiano

In tanti, ipnotizzati dal piccolo schermo, hanno imparato dal maestro Manzi che non è mai troppo tardi. Anche lui, il Mike nazionale, ha portato però acqua al mulino dell’apprendimento dell’italiano. È stato Umberto Eco ad affrontare per primo il profilo comunicativo, fra il surreale e l’imbarazzante, di un fenomeno che avrebbe poi attirato l’attenzione di generazioni di studiosi e addetti ai lavori: semiologi e massmediologi, sociologi e linguisti. La sua allegria, di là dall’iniziale materializzazione del pressante desiderio di svago di un paese segnato dalla guerra, è stata soprattutto emblema di uno spettacolo che non può interrompersi qualunque cosa avvenga.

L’evergreen Michele Bongiorno, decennio dopo decennio, ne è stato il più cinico, straordinario interprete: “Eccola qua” dirà imperturbabile – era La ruota della fortuna – mentre una concorrente, accusando un mancamento, si accasciava a terra. La poverina si ripeterà una seconda e poi una terza volta e lui, sempre come nulla fosse: “Sta per svenire un’altra volta”; “Un momento sta svenendo di nuovo”. Nell’allegria di Mike, che ha recitato da Bongiorno fino all’ultimo, c’era per intero il senso di un italiano picaresco e un po’ briccone, impertinente e farsesco, etichettato in tanti modi: deficitario, irriflesso, povero, informale, standard… Era in realtà, l’italiano di Mike Bongiorno, non molto diverso da un “parlato semplice” assai migliore dell’“urlato complice” di tanta becera tv del terzo millennio. Gli perdoniamo così volentieri tutti gli strafalcioni (“Era ora che se ne vada a casa!”), le gaffe leggendarie, il machismo e i doppi sensi, gli impareggiabili slogan involontari di cui è stato campione.

Un mondo di gaffe

“Peccato, signora Longari, peccato”. Quanti giovani, che seguivano Rischiatutto, l’avranno detto negli anni Settanta per ironizzare su un insuccesso scolastico altrui. E quanto si era riso nel 1958, quando, di fronte a una concorrente che aveva avuto la stravagante idea di portare in trasmissione un gatto di pezza collerico, Mike pensò si trattasse del “nome di una nuova razza di felini”; quando pronunciò Pioics e Paolovì i nomi dei due papi Pio X e Paolo VI; quando, a una concorrente che gli aveva detto di lavorare in una legatoria, rispose quasi con candore: “E cosa lega?”; quando fece diventare una licenziosa bernarda l’innocente berlanda del testo consegnatogli dagli autori, correggendosi un attimo dopo l’esplosione d’ilarità generale: “Allora, attenzione donne, qual è il titolo di questa canzone? La filanda, La belinda, La bernarda? No, La berlanda, La berlanda”.

“Guarda che più si è ignoranti meglio si funziona, eh sai, te lo dico io. Io per esempio sono ignorante, che son qua da quarant’anni”, disse una volta. Ignorante? Forse. Ma di una geniale ignoranza che se ne infischiava degli svantaggi culturali, rimettendosi al giudizio del suo pubblico. Si sarebbe volentieri appropriato, il principe dei gaffeurs, di quest’affermazione di Sant’Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”. Chissà, però, come sarebbe uscita dalla sua bocca.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

The post Rischiatutto, di Mike ce n’è uno solo appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Dixit, l’idea di uno psichiatra per ridare significato all’immaginazione giocando

$
0
0

Indovina chi viene a scena

Tutti sappiamo immaginare una storia. Il problema non è tanto decodificare il segno (per dirla con i semiologi) che abbiamo davanti, quando descriverlo a chi ci è di fronte. Come faccio a far capire che cosa sta accadendo in quel momento? Dixit è questo: un gioco dove dobbiamo far capire a qualcuno (ma non a tutti) cosa abbiamo davanti. Nasce nel 2002 da un’idea di uno psichiatra infantile a Poitiers, Jean-Louis Roubira, specializzato nella relazione madre-bambino. Ha l’abitudine di ritagliare immagini da riviste per bambini, in buona parte riconducibili alle opere di Charles Perrault; immagini che è solito riutilizzare durante le sue psicoterapie.

La fortuna non arride al gioco, che all’inizio non si chiama neanche Dixit. Nessuna casa di produzione dà credito al suo inventore, perché Dixit è ritenuto troppo intellettuale; per non parlare dei diritti d’autore da pagare per le immagini. Roubira si mette allora a cercare un illustratore. Una sua amica gli presenta Marie Cardouat, illustratrice di libri per bambini, e alla fine il gioco viene prodotto della Libellud, una casa editrice che nasce proprio grazie a Dixit. È il 2008. Vincitore dello Spiel des Jahres (2010), il premio per il miglior gioco dell’anno, Dixit è un boardagame che sembra sfidare le leggi della semiotica. Ci mette di fronte a un paradosso infernale: descrivere una scena senza farla comprendere a tutti; se tutti dovessero indovinare non otterrei alla fine alcun punto, come non prenderei punti se nessuno riuscisse. Ed proprio l’assegnazione dei punti l’elemento portante di Dixit.

A turno ogni giocatore, chiamato narratore, descrive con una parola o una frase, un suono o un verso una delle carte che ha in mano, prima di metterla coperta sul tavolo. Tutti gli altri giocatori metteranno a loro volta coperte sul tavolo una delle loro carte, quella che ritengono possa rappresentare la scena descritta dal narratore. Le carte si mischiano, dopodiché vengono girate e la gara inizia: ogni giocatore, a eccezione del narratore di turno (che sa, naturalmente, qual è la sua carta), dovrà indovinare la carta che è stata narrata. Chi fosse tratto in inganno dalle carte degli altri giocatori regalerà punti ai loro proprietari.

dixit 1

Dixit, tradotto in più di una dozzina di lingue, in Corea del Sud si è addirittura materializzato in una sitcom locale, che ne ha aumentato esponenzialmente le vendite (ormai superiori al milione di copie). Non ce ne sarebbe stato in ogni caso bisogno, perché Dixit ha la capacità di vendersi da solo: piace a grandi e piccini, di qualsiasi nazione o etnia. Ma, a proposito di etnie, sarebbe interessante provare a ipotizzare cosa potrebbe succedere se a uno stesso tavolo si venissero a trovare giocatori provenienti da ogni parte del mondo. Sarebbero in grado di far capire le loro carte? Avrebbero problemi a farsi comprendere?

Figurine artistiche, un po’ archetipiche

Dixit è un gioco in cui il contesto ambientale e la proprietà di linguaggio contano tantissimo – più di quanto potrebbe sembrare dopo la prima partita –, ma è anche un gioco semplice. Unisce oltretutto le persone e ne alimenta l’immaginazione, al punto che vincere non è poi così importante. L’obiettivo principale, anzi, è divertirsi stando insieme.

Le carte, magistralmente illustrate da Cardouat, ci catturano fin da subito. Le figure sono un omaggio ai grandi dell’arte e della letteratura, da Magritte a Dalì, passando per i coniglietti – nel gioco rappresentano i segnapunti – ispirati al Bianconiglio del capolavoro di Lewis Carroll. Le varie immagini selezionate rispondono in tutto e per tutto anche alla sensibilità dell’inventore, perché mettono al centro il parto, la libertà, la relazione adulto-bambino, la poesia e l’amore. Temi familiari a uno psichiatra infantile, e che da lui si trasmettono ai giocatori: sono loro a creare la storia da una semplice immagine, a dar forma a un significante incarnandolo in un significato. E nessuno potrà mai contestare le nostre storie e i nostri racconti, frutto della nostra fantasia ma anche risultato dell’applicazione delle “regole” del gioco.

dixit 2

Roubira e Cardouat sono insomma riusciti ad affascinarci con una semplice immagine. Esattamente come riuscì all’inizio del Novecento a Hermann Rorschach (1884-1922), con il suo test a macchie d’inchiostro. C’è un gioco intitolato anche a lui, mai tradotto in lingua italiana, ma Rorschach è anche il personaggio di un fumetto: Watchmen (di Alan Moore). È un giustiziere, e indossa una maschera il cui disegno riproduce le macchie di quel test.

di Matteo Roberti 

The post Dixit, l’idea di uno psichiatra per ridare significato all’immaginazione giocando appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Petaloso & co., giochiamo a inventare le parole

$
0
0

Nel 2015, approfittando delle celebrazioni per il 750° anno dalla nascita di Dante, geniale e raffinato neologista, abbiamo lanciato il Twittabolario, un progetto di costruzione per gioco di un dizionario di vocaboli o significati inventati. L’impresa, sviluppata insieme a Scritture brevi, una comunità di “twittarini” (fanno rima con canarini) creata da Francesca Chiusaroli, ha visto coinvolta anche Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana piana) di imminente pubblicazione. Ne abbiamo parlato, riportandone alcuni esempi, in uno dei due interventi che abbiamo dedicato qui all’iniziativa; ecco qualche altra voce tratta dal dizionario di Petrazzuolo:

Thesaurus

frattùria s. f. [incrocio di frattura e lussuria] • Infortunio fisico dovuto a un eccessivo impeto lussurioso. Il vocabolo fu usato per la prima volta nel 1924 dal medico calabrese di origine greca Agamennone Artride nell’opera Mi spezzo ma non mi piego. Lo scienziato descrive, nel libro, il frutto di ricerche durate 40 anni. All’inizio della sua carriera era rimasto molto colpito dai casi di fratture multiple riscontrate in numerose donne originarie di un paesino della Sila. Dopo accurate analisi il luminare concluse che tali fratture erano imputabili alla foga amatoria di alcuni silani che, tediati dal lungo inverno e da rituali ormai obsoleti, si erano dati alla sperimentazione delle varie posizioni suggerite dal Kamasutra, senza tener conto della fragilità ossea delle loro compagne: Dopo aver osservato la corpulenza, la possanza e la rudezza di Tano Scassacconcia, conclusi che la frattura all’anca e la slogatura della mascella della moglie erano dovute a una forma grave di fratturia (ANNAMARIA MONTESANO).

logopìsta s. m e f. [composto di logo- e pista(re), sul modello di logopedista] • Chi mette sotto i piedi (calpesta) il λόγος. Il termine è solitamente attribuito ai parvenu fra quegli scrittori che, utilizzando in modo inappropriato la lingua italiana, la umiliano e la stravolgono a loro uso e consumo. Spesso i logopisti trovano ampio spazio nelle pagine prodotte dall’editoria prezzolata o a pagamento: In Italia ci sono più logopisti che scrittori (MAURIZIO PONTICELLO).

suppelletiloclastìa s. f. [comp. di suppellettil(e) e -clastia, sul modello di iconoclastia] • Tendenza tipica dell’età puerile alla distruzione di soprammobili e complementi di arredo: Mio figlio soffre di suppelletiloclastia (GIANNI CONTARINO).

Ed ecco un paio di fulminanti risposte degli utenti del fattoquotidiano.it alla nostra giocosa provocazione:

Allucinazione. Patria degli alluci (Luisa Loffredo)
Encefalo. Esclamazione di compiacimento di pescatore romano (Stemax).

I seguenti sono tutti dello stesso lettore, che si era firmato Rorschach:

Acetone. Condimento per insalatone.
Aculeo. Spillone costruito appositamente per punzecchiare i glutei.
Algoritmo. Movimento regolare praticato dalle piante acquatiche.
Allucinazione. Miraggio del pollicione.
Anabbagliante. Sedere luminosissimo.
Arazzo. Dipinto velocissimo.
Astigmatico. Privo di fori nelle mani.
Auriga. Linea retta di colore dorato.
Automa. Formaggio munito di ruote.

La prima definizione dell’elenco è accolta in un Addizionario. L’ha messo qualche anno fa in rete tal Gioacchino Mazza, ma non oltrepassa la lettera A. La quinta definizione era già in un Cazzabolario del 2008 . Il goliardico repertorio si è in questo caso fermato alla lettera D; eccone alcuni esemplari:

Abbattere. Classica risposta di una prostituta alla domanda “Dove stai andando, bella?”
Abbondanza. Ballo di ciccioni.
Accompagnamento. Mandibola molto socievole.
Acrobazia. Monastero di monaci saltellatori, in grado di esibirsi con ruote, spaccate e salti mortali.
Addendo. Urlo della folla quando, in Africa, stai per pestare una cacca di cane.
Aggrapparsi. Attaccarsi alla bottiglia della grappa.
Anatema. Compito scolastico sui piaceri sessuali alternativi.
Armadillo. Piccolo mobile spagnolo.
Assediare. Attaccare con un esercito armato di sedie.
Attaccante. Calciatore appiccicoso.
Babà. Genitore africano molto dolce e premuroso.
Babau. Al contrario del babà, mostruoso genitore africano.
Baraonda. Cassa da morto usata come surf.
Benevento. Peto profumato.
Benfatto. Drogatone contento.
Bistecca. Reiterato errore da parte di un tenore.
Bivacco. Assembramento notturno di bovini.
Bucaneve. Precisa pisciata maschile invernale.
Can can. Litigio fra cani francesi.
Cappuccetto rosso. Marca di profilattici comunisti.
Cassata. Cavolata siciliana.
Ciambellano. Complimento rivolto a donna fornita di notevole fondoschiena.
Circonvenire. Eccitarsi alla vista di uno spettacolo circense.
Citrullo. Lo scemo del villaggio di Alberobello.
Clarissa. Suora collerica sempre pronta a menare le mani.
Clitoride. Sorridente organo dell’apparato genitale femminile.
Correggia. Puzzolente cinghia di cuoio.
Decadere. Cadere 10 volte di fila.
Defunto. Morto annegato nell’olio.
Deragliare. Uscire dalle rotaie facendo il verso dell’asino.
Diacono. Chierico venditore ambulante di gelati.
Discorso. Rotondo plantigrado musicale.
Dodecagono. Figura piana di 12 lati nei cui 12 angoli fanno la cacca 12 persone.
Doping. Pratica anglosassone del rimandare a più tardi.
Dondolo. Uno dei nani di Biancaneve con problemi di deambulazione.

“Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto rarament barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta”. Questo era Fosco Maraini.
Il resto alla prossima puntata.

Massimo Arcangeli
Sandro Mariani

The post Petaloso & co., giochiamo a inventare le parole appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Fumetti e giochi, ai festival i genitori quarantenni trascinano i figli

$
0
0

Di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

Fino a una ventina di anni fa scrivere un post come questo sulle manifestazioni ludiche in Italia sarebbe stata un’impresa ardua: gli eventi di spessore che riuscivano a fare i numeri si contavano col contagocce, mentre buona parte degli appuntamenti si affidavano al buon cuore degli organizzatori e a un fedele e sparuto pubblico di nerd (oltre che agli immancabili appassionati di fumetti). Alla fine del secolo scorso la musica è cambiata. Nella penisola è stato un fiorire di composti con gioca: da GiocaRoma (sparita) a GiocAosta, da FirenzeGioca… a GiocaCon (Piacenza). Il filone più fortunato è però quello che punta sugli anglicismi, concretizzati nella stragrande maggioranza dei casi unendo al nome della città comics, games o entrambe le parole.

Lucca comics 2014

Torino (Comics) ha esordito 22 anni fa. Ci sono poi fum (una delle manifestazioni più grandi d’Europa), Mantova Comics & Games, Massa Comics and Games, Prato Comics + Play (ferma al 2015), Etna Comics (Catania), Romics (Roma), Alecomics (Alessandria). Un filone proficuo anche quando non indica la zona geografica, come per GioCoMix, l’evento comics & games più grande della Sardegna (Cagliari), Planet Comics (Verona; fermo all’edizione del 2015), Comicon (Napoli), Ludicomix Bricks & Kids (Empoli), Dracomics Festival Fantasy del gioco e del fumetto (Santa Maria a Monte), Cartoomics (Milano; fra gli appuntamenti tradizionali della città meneghina, con ormai 20 edizioni alle spalle). La rassegna potrebbe proseguire con Play (Modena), che in questi ultimi anni si sta imponendo come uno dei festival di maggior successo nel panorama ludico nazionale, e con Volterra Mistery & Fantasy.

Un settore ben foraggiato da quarantenni cresciuti a pane e cartoni animatimade in Japan”, a cavallo degli anni Ottanta, al punto che nessuno fa ormai più caso se, a un festival ludico, partecipano attempati cosplayers o sono proprio i genitori i primi avversari dei loro figli; la tendenza è confermata dal direttore artistico di Play, Andrea Ligabue: «Da noi i bambini arrivano a seguito dei genitori, che magari sono appassionati di giochi, e non viceversa. Lo scorso anno su 30 mila biglietti staccati quelli ridotti per bimbi da 4 a 10 anni sono stati meno di uno su dieci». Se il trend in materia pare essersi consolidato, con tante manifestazioni che hanno superato le difficoltà delle prime edizioni con una buona (a volta ottima) risposta di pubblico – tra gli esempi positivi c’è il Carrara Show –, allo stesso tempo è evidente uno scollamento fra mondo reale e mondo virtuale: in rete appare estremamente complicato riuscire ad avere un quadro chiaro di tutti gli eventi ludici in programma nel paese (se non a costo di mettere assieme le informazioni di diversi siti, nessuno dei quali completo). Di seguito un calendario parziale dei prossimi appuntamenti, da aprile a ottobre, recuperati navigando qua e là per il web:

Torino Comics (Torino), 15-17 aprile
GiocaCon (Piacenza), 16-17 aprile
Ludocomix Bricks & Kids (Empoli), 16-17 aprile
Comicon (Napoli), 22-25 aprile
Dracomics (Santa Maria a Monte, PI), 14-15 maggio
Volterra Mistery & Fantasy (Volterra, PI), 21-22 maggio
GioCoMix (Cagliari), 20-22 maggio
Etna Comics (Catania), 30 maggio-2 giugno
Festa dell’Unicorno (Vinci, FI) 22-24 luglio
GiocAosta (Aosta), 19-21 agosto
Massa Comics and Games (Massa), 10-11 settembre
CarraraShow (Carrara), 24-25 settembre
Fantastika (Rocca Sforzesca di Dozza – Bologna), 24-25 settembre
Alecomics (Alessandria), 8-9 ottobre

E ora godetevi la visione di un breve video, realizzato per il Romics (Roma) che si è svolto qualche giorno fa.

The post Fumetti e giochi, ai festival i genitori quarantenni trascinano i figli appeared first on Il Fatto Quotidiano.


‘Indovina Chi’ in versione Beautiful. Ecco le parentele (e le tresche) tra le figurine

$
0
0

di Davide Careddu

È il 1979. I signori Theo e Ora Coster, nella piovosa Gran Bretagna, ideano un gioco che è stato – da che ho memoria – un vero e proprio must per i bambini degli anni 90: Indovina Chi (nella versione d’oltre manica: Guess Who). Le regole sono semplici: io ti chiedo informazioni su quello che penso possa essere il tuo personaggio e tu fai altrettanto. Interi pomeriggi trascorsi a esaminare, e a tentare di svelare, l’identità posticcia del nostro avversario.

Davanti a noi un tabellone di 24 figurine con volti caricaturali: 19 signori e 5 signore che ti guardano dritto negli occhi, aspettando solo di essere “eliminati”. Sole risposte consentite: un sì o un no. Il trucco è non lasciarsi sviare dalle apparenze. Le mie domande, come le tue, saranno mirate a una specifica caratteristica: “Ha gli occhiali?”; “Sì” : giù tutti quelli che non ce li hanno. “È bionda?”; “No”: abbassiamo tutti i biondi. Ma prima di qualunque altra curiosità: è maschio o femmina? Saremo noi a elaborare il resto. A dirla così sembrerebbe un gioco da tavola monotono e ripetitivo, in realtà il coinvolgimento dei giocatori (due, non di più) è a tutto tondo: piccoli detective a caccia delle più riposte peculiarità del prescelto. Le gote paffute e rosee di Bill, lo sfarzoso cappellino di Claire, lo sguardo corrucciato di Alfred, o ancora il mento a punta del caro Paul, sono solo alcune delle tantissime qualità che il nostro intuito deve riuscire a percepire. A poco serve giocare d’astuzia e barare, rischieremmo di perdere la partita e di essere sbeffeggiati dal nostro rivale.

Cadere in errore è davvero molto semplice: alcuni tra i nostri personaggi condividono determinati tratti del viso. Saranno mica parenti? Sono davvero restii a confidarsi, ma tra le figurine le voci corrono rapidamente. Pare che in realtà Peter sia il padre di Susan ecco svelato il platino dei loro capelli –, che a sua volta è sposata con Richard, barbuto, radical chic e fumatore di sigari; Richard è cognato di Bernard (il tizio col basco che lavora al KGB, per intenderci), sposato con Maria, anima pia che ignora la vera professione del marito credendolo metalmeccanico. Charles e Claire sono felicemente sposati e Anita è il frutto del loro amore (unica eredità: il biondo ramato del papà). Anita si strugge d’amore per Alfred, roscio irlandese che proprio non se la fila; David è lo scapolone, fratello di Charles, con cui condivide il mestiere di idraulico. Joe è un nerd occhialuto, abilissimo in campo informatico: non a caso George, agente speciale (FBI), si affida alle sue doti per dare la caccia a Bernard. Sam, Paul e Tom non sono proprio dei tipi raccomandabili: pare lavorino in una piccola biblioteca per ragazzi, ma su di loro pendono gravi accuse di pedofilia. Alex e Philip, dichiaratamente gay, vivono serenamente la loro solida storia d’amore; al contrario di Franz e Eric, che preferiscono tenere ancora tutto nell’ombra (eppure i tempi sono maturi!). Max e Anne vendono kebab in Marocco; meno fortunati, ahimè, i due fratelli Bill e Herman – la loro espressione dice tutto. Il primo lavora a Mc Donald’s, e grazie al suo cranio ovale racimola soldini anche come attrazione al circo; il secondo è postino di giorno, appassionato di numismatica e francobolli di notte. Per finire Robert. Beh, in realtà, Robert non sa perché si trova lì.

Considerato il complicato intreccio (che i produttori di Beautiful ne abbiano tratto ispirazione, in bel un pomeriggio ludico?), ogni qualvolta deciderete di fare un tuffo nel passato, rispolverando la vostra scatola targata Hasbro, siete pregati di circoscrivete le domande che farete all’aspetto fisico. Evitate di indagare sulla vita privata delle figurine del gioco. Meglio non mettere zizzania.

The post ‘Indovina Chi’ in versione Beautiful. Ecco le parentele (e le tresche) tra le figurine appeared first on Il Fatto Quotidiano.

Pokémon Go, tutti pazzi per l’app del momento, compreso il capo dello Stato  

$
0
0

Cronaca di un successo non annunciato

Le discussioni sul referendum, ha detto il presidente Mattarella alla cerimonia del Ventaglio, “mi sono apparse surreali, come la caccia ai Pokémon”. Ebbene sì: anche il capo dello Stato è stato folgorato sulla via del videogioco già scaricato 7 milioni e mezzo di volte.

Il 14 luglio, alla vigilia dell’uscita in Italia su Android e iOS, era già pokémania nei paesi (Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda) in cui l’applicazione, otto giorni prima, era stata lanciata, e il sito YouPorn si era pubblicamente congratulato con l’azienda giapponese Nintendo (co-produttrice e socia in affari, per l’occasione, della californiana Niantic): sui motori di ricerca l’espressione “Pokémon Go” era riuscita a superare per popolarità la parola porn.

pokemon 1

È proprio Pokémon Go il nome dell’app che, collegando uno smartphone al sistema satellitare di geolocalizzazione Gps, permette di trastullarsi in Ar (Augmented reality, “Realtà aumentata”) con i piccoli “mostri tascabili” (pocket monsters) ideati dalla Nintendo nel 1996, e allora protagonisti di un videogioco per la consolle portatile Game boy. Nel gioco si dovevano catturare, allenare in palestra, far combattere i propri pokémon contro quelli degli avversari. Scopo del gioco era arrivare a completare il pokédex, l’enciclopedia digitale che li raccoglieva tutti e 151. Negli anni sarebbero diventati 720.

Il più famoso dei pokémon, Pikachu, ha spopolato ovunque. In Giappone il piccolo roditore, come molti altri personaggi di manga o anime (DoraemonNaruto, Detective Conan, etc.), è stato addirittura riprodotto in un francobollo. Ora, con l’arrivo sul mercato di Pokémon Go, la concorrenza si è fatta spietata. Con Gengar, che abita il buio e si nutre dei sogni delle persone, una venticinquenne cresciuta a pane e pokémon, Valeria Girardi (alias Hypnotic Soul) vorrebbe addirittura passare le proprie notti. Il simpatico Diglett, che vive sottoterra e, quando affiora in superficie, mostra solo la testa marrone, simile a un salsicciotto vagamente fallico, lo si vede fuoriuscire, in alcune foto circolanti su internet, dalla patta dei jeans, di una tuta, dei pantaloni del pigiama. E poi ci sono Gastly, Krabby, Magneton, Ponyta, Rattata, TentacruelWeedle… Potrebbe presto dare del filo da torcere a Pikachu perfino Magikarp, il pesce rosso e arancio che nessuno vorrebbe allenare: riesce a sopravvivere anche in acque inquinatissime, ma ha un rendimento imbarazzante. Pokémon Go, in ogni caso, non è un granché. Anzi, detto francamente, è piuttosto noioso.

A caccia di pokémon, dovunque e a ogni ora

Molti “pokémongomani”, per aggiungere alla loro collezione anche un solo mostriciattolo, farebbero di tutto. C’è chi si avventura nei luoghi più pericolosi o impensabili nei quali possono essersi nel frattempo concentrati altri giocatori alla ricerca di una palestra oppure di un pokéstop, luogo di stazionamento per rifornirsi, acquistando la merce con le pokécoins, di tutto il necessario: le indispensabili sfere (pokéball, megaball, ultraball) per la cattura dei pokémon; esche varie, alcune deliziosamente profumate, con le quali attirarli; una borsa più capiente per contenerli; medicamenti per curare i pokémon feriti (dopo un combattimento); uova da far dischiudere durante il tragitto.

Intanto chi ha fiutato l’affare si attrezza, fra neoproprietari di sedicenti palestre, cacciatori e allenatori di mostriciattoli a pagamento, proprietari di bar e ristoranti che si fanno pubblicità per favorire i raduni dei pokémaniaci nei pressi dei loro locali informando che gli esercizi sono situati nei pressi di un pokéstop (al momento non se ne possono creare di nuovi), una meta tanto agognata da aver indotto quattro malviventi del Missouri ad attirarvi alcuni adolescenti, al fine di derubarli.

In rete, di aneddoti e storie surreali, demenziali, assurde su Pokémon Go, ne circolano ormai a centinaia: in molti casi si tratta delle solite bufale, o di notizie parzialmente false o gonfiate a dismisura, in molti altri il racconto è invece autentico. Sembra intanto che un giovane americano abbia completato la sua raccolta, catturando 142 pokemon dei 151 (lo stesso numero della serie iniziale) teoricamente disponibili. Il ragazzo non avrebbe potuto fare di più (alcuni di quei 151 pokemon, fra cui l’ambitissimo Mewtwo, non sono stati ancora immessi sul mercato statunitense). Per portare a termine l’impresa ha catturato 4.269 pokémon, e per far schiudere le sue oltre 300 uova ha dovuto camminare, in due settimane, per più di 150 km. Un maratoneta.

Di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

L'articolo Pokémon Go, tutti pazzi per l’app del momento, compreso il capo dello Stato   proviene da Il Fatto Quotidiano.

Webete e neologismi. Come ti deformo (giovanilisticamente) l’italiano

$
0
0

I linguaggi delle nuove generazioni muovono i loro primi passi importanti, negli anni Quaranta e Cinquanta, fra Roma e Milano. E ancora oggi, fra i tanti giovani e giovanissimi che deformano scherzosamente l’italiano, un po’ per distinguersi e un po’ per nascondersi agli occhi degli adulti, milanesi e romani giocano un ruolo di primo piano. Se la loro lingua, rispetto a quella dei loro coetanei di più di mezzo secolo fa, si è evoluta, i principali ingredienti del “giovanilese” sono rimasti più o meno quelli di allora. Non mancano però le sorprese, com’è normale aspettarsi da chi vuole ogni volta stupire, provocare, sfidare.

“Bella, fratè, come butta?”. “Male, oggi ho sclerato di brutto”. “Scialla, nun te ne fregà”. Facciamola più difficile: “Io lollo sempre un devasto quando i cazzoni ci lasciano o quasi le penne a fare i lollers con gli animali spaccaculi”, scrive Randolk; “Io me la rido sempre di gusto quando gli stolti rischiano la pelle a trattare con leggerezza certi animali selvaggi”, traduce NickZip a beneficio dei navigatori virtuali digiuni di slang sul forum Wayne2k1.

Gli incapaci del web: un po’ “niubbi”, un po’ “utonti”

Un buontempone gli ha addirittura dedicato una pagina ufficiale su Facebook: “Ahah sei nabbo!”. Una parola,nabbo”, che fa il verso a babbo ma strizza l’occhio a babbio. A impugnarla come una clava i giovani e giovanissimi che menano fendenti contro i testoni della Rete: nabbi o nabbioni, e stavolta la rima con babbioni è perfetta.

I nabbi e i nabbioni, e poi i niubbi e gli gnubbi, i nab e i newbboni. Hanno tutti contratto un debito, chi più chi meno, con i newbies o i noobs dell’inglese. Pivellini sia gli uni sia gli altri, ma i primi si sforzano di migliorare mentre i secondi sono irrecuperabili. Noob suona come un insulto, newbie no. I giovani digitalizzati nostrani non stanno però lì a sottilizzare: per molti di loro un noob e un newbie, un niubbo e un nabbione, un nabbo e un newbbone sono più o meno la stessa cosa.

Tante forme per dire novellino o brocco, sprovveduto o neofita. Che è anche un modo per sottrarsi agli occhiuti controllori impegnati a impedire la circolazione nel web di termini offensivi. Mi censuri noob? E allora te lo rendo irriconoscibile, fra un n00b (con due zeri) e un nub, un boon e un obon (anagrammi), un naab e un nappo. Chiede uno, appassionato di giochi spaziali: “nabbo/nappo/niubbo/noob pippa ecc. sn inserite nella blacklist?” la parola nabbo è una parola semi offensiva x determinare un giokatore principiante ma si dice in tutti i game quindi volevo sapere se è contenuta nella blacklist xk nn è una parola offensiva… è un insulto simpatico”. Gli replica l’“imperatore del forum” (si definisce così): “Nabbo non è in black list. Se lo scrivi al plurale invece ti kicka dal sistema. Se scrivi N a b b i e sfortuna vuole che ci sia io a leggere dietro il pc… ti banno perché raggiri la black list!!!”, si legge su Bigpoint.com.

C’è anche chi fa domande come questa: “Ho la definitiva convinzione che il pc sia meglio lasciarlo senza coperchi perché si raffredda meglio e lo sento dalla ventola che gira molto meno. Siete d’accordo?” Un utente un po’ surreale di Niubbi.net, più che un nabbo. La spietatissima Rete ne ha anche per quelli come lui. Sono classificati fra gli utonti, un’ibrida specie virtuale miracolosamente prolifica.

Il caso webete

petalosoPer petaloso è accaduto lo stesso che per webete, anche se la situazione era lì un po’ diversa. Un bambino crea la parola (fig. 1) e, a un certo punto, schizza fuori chi fa notare l’esistenza dell’ingl. petalous (‘provvisto di petali’) e chi ricorda che anche in italiano il termine non è nuovo: l’avrebbe già accolto, in un contesto latino, un trattato di animalia, fossilia, plantas, ex variis mundi plagis advecta, ordine digesta, et nominibus propriis signata (Londra 1695, p. 92) di un botanico e farmacista inglese, James Petiver (fig. 2).

petaloso 2

Il vocabolo, che neanche l’autore rammentava di avere utilizzato, sarebbe poi riaffiorato, a distanza di secoli, in un articolo di Michele Serra per il settimanale “Panorama (febbraio 1991, p. 117): “I fiori di Sanremo sono iperrealisti: troppo petalosi e colorati, sono fiori di rappresentanza e dunque la mettono giù dura”. Chi è, a questo punto, il padre di petaloso? Petiver, Serra o il piccolo Matteo? La risposta è secca: una rondine non fa primavera, e neanche due. Partiamo da qui, richiamando in causa webete: se il giovanissimo inventore di petaloso presumeva che la parola già esistesse, Enrico Mentana non poteva conoscere l’occasionalissimo precedente della sua invenzione lessicale.

Per attribuire la patente di neologismo a una determinata parola, in un fenomeno carsico come quello di cui parliamo, non sono sufficienti – se non hanno avuto alcun seguito – prime (o seconde) attestazioni. Non basta la presenza di webete in uno sconosciuto glossarietto di telematichese degli anni Novanta a sottrarre a Mentana la paternità del conio. Nella percezione di milioni di parlanti e scriventi webete è nuovo. È il motivo per il quale bisognerebbe accettare tutti di considerarlo tale, e di ritenere altrettanto nuove parole analoghe.
Goditi il meritato podio, caro Mentana. Con buona pace degli specillatori di turno.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

L'articolo Webete e neologismi. Come ti deformo (giovanilisticamente) l’italiano proviene da Il Fatto Quotidiano.

Reazione a catena, quiz tv a perdere

$
0
0

Reazione a catena. Puntata di sabato 10 settembre. Siamo all’ultima prova, il montepremi è di poco più di 8.000 euro. C’è da indovinare una parola che inizia per CO e finisce per O. Il primo vocabolo guida è SISTEMA. Ci era venuto di dire COMPLESSO, ma il secondo vocabolo guida è PARCO. Un “parco complesso”? E che accidenti sarebbe? Il “complesso di un parco”, per dire di tutto ciò che vi è contenuto? Oppure il “complesso del parco”? Magari la sindrome esiste, è stata codificata e non lo sappiamo. Digitiamo COMPLESSO DEL PARCO, facendolo precedere e seguire dalle virgolette alte per rendere mirata la ricerca. Non esce nulla di significativo o di interessante. Magari, più che un complesso, s’intende suggerire una nevrosi, un disturbo della personalità. L’ha detto Freud, d’altronde: alla base dei comportamenti nevrotici dell’età adulta c’è quel che è sopravvissuto – nell’inconscio – del complesso di Edipo. Nevrosi: ossessioni, angosce, paranoie… fobie.

Ecco. Potrebbe trattarsi proprio di fobie. Siamo curiosi, non resistiamo. Proviamo a cercarne un po’ in rete, a partire da quelle repertoriate nei siti specializzati come http://www.fobie.org. Sono un’infinità: acluofobia, o nictofobia (paura del buio); aerofobia (paura di volare); agorafobia (paura degli spazi aperti); amaxofobia (paura di guidare un’auto o un motociclo); aracnofobia (paura dei ragni); belenofobia, o tripanofobia (di aghi, spilli, iniezioni…); bromidosifobia (dei cattivi odori); ceraunofobia (dei tuoni e dei fulmini); chiraptofobia (di essere toccati); cinofobia (paura dei cani); claustrofobia (degli spazi chiusi); coprofobia (delle feci); dendrofobia (degli alberi); emetofobia (di vomitare); emofobia (del sangue); entomofobia (degli insetti); eremofobia (di stare da soli); ergofobia, o ergasiofobia (del lavoro da svolgere); ginefobia, o ginecofobia (delle donne); glossofobia (di parlare in pubblico); helminthofobia (dei vermi);  kakorrhaphiofobia (di perdere o fallire); iatrofobia (dei medici);  idrofobia (dell’acqua); laliofobia, o lalofobia) (di parlare); misofobia (dei germi); musofobia, o murofobia (dei topi); nomofobia (di rimanere sconnessi); nosocomefobia (degli ospedali); ofidiofobia (dei serpenti); pediofobia (delle bambole); pharmacofobia (dei farmaci); phasmofobia (dei fantasmi); pnigofobia (di soffocare o di strozzarsi); pocrescofobia, o obesofobia (di ingrassare), rupofobia (dello sporco); sessofobia, o heterofobia (di relazionarsi con il sesso opposto); siderodromofobia (di viaggiare in treno);  spettrofobia, o eisoptrofobia (degli specchi e della nostra immagine specchiata); tacofobia (della velocità); tafofobia (di rimanere sepolti vivi); tecnofobia (della tecnica); urofobia (dell’urina); venustrafobia, o caliginefobia (delle belle donne); zoofobia (degli animali)… Niente. Ci sarebbe l’hylofobia, la paura dei boschi, ma parchi e boschi non si assomigliano molto.

Forse allora PARCO è aggettivo? Ne ripassiamo mentalmente un po’ di sinonimi: frugale, misurato, regolato, moderato, sobrio… Ci viene CONTENUTO. Ma cosa mai sarebbe un sistema CONTENUTO? Boh. Eureka! CONTROLLATO. L’espressione sistema controllato è in uso nella scienza dei sistemi di controllo, e di una persona parca si può ben dire che si contiene, che sa controllarsi. I concorrenti optano per COMPOSTO. Peccato. Aspettiamo la scontata conferma alla nostra ipotesi. Non arriva: la soluzione è COMPLESSO.

Torniamo così a bomba. È sempre il “parco complesso” che non sappiamo cosa sia, oppure quel “complesso del parco” che non abbiamo trovato? Niente di tutto questo. Il PARCO è un PARCO AUTO, e il legame con COMPLESSO consiste nel fatto – Amadeus prova a spiegarlo, ma non gli riesce molto bene – che un autoparco è un insieme di autoveicoli. Come spiegato in questa definizione, tratta da un dizionario on line dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (http://www.treccani.it/vocabolario/autoparco):

auto

Consigliamo agli autori di Reazione a catena, qualora decidessero di ripescare AUTOPARCO, di agganciarlo a LUOGO. A voler rendere la prova un tantino più difficile – fa fede la definizione del vocabolario dell’autorevole Treccani – potrebbero però optare per DOVE. Oppure per DEGLI, o per UN, o per IL. Ma ci sarebbe una soluzione più semplice. Non per loro, per la Rai: cambiarli. Troppe volte la “catena” del programma, al rush finale, ha sfidato la logica. Spiazzando perfino chi è del mestiere.

L'articolo Reazione a catena, quiz tv a perdere proviene da Il Fatto Quotidiano.

Taboo, qual è l’origine del famoso gioco da tavolo?

$
0
0

L’origine della parola 

Avete mai provato a suggerire il termine tabù seguendo le regole di… Taboo? Ecco che ci assale subito il “blocco del suggeritore”, momento di panico per l’improvvisato “gobbo” che ha la responsabilità di condurre la compagnia verso la risoluzione dell’enigma lessicale. Ma, facendo un passo indietro, vi siete mai incuriositi per la differente grafia che caratterizza il titolo ludico rispetto a quella del termine italiano utilizzato per indicare il “proibito”, ciò che non è lecito dire, fare, toccare… a volte persino pensare?

Ebbene, da una banale curiosità si arriva a una spiegazione linguistica tutt’altro che scontata: la grafia taboo, universalmente nota come nome del gioco, è semplicemente la traslitterazione inglese, al pari del francese tabou e dell’italiano tabù, di un termine che si riferisce a ciò che è considerato sacro, inviolabile e dunque protetto da divieti, proibizioni. Qual è dunque questa parola e quale la sua origine?

Scomodiamo, al solito, il greco? No! I figli di Omero avrebbero detto, e dicevano, ἀθέμιτον (athèmiton). Beh, allora deriva senz’altro dal latino. Sbagliato! I figli di Romolo usavano nefas (per ciò che era considerato una “colpa” in ambito religioso, un “peccato”). L’etimologia di questa parola ci porta fino in Polinesia ed è tapu. Si riferisce a oggetti o luoghi inviolabili, azioni proibite, parole impronunciabili.

Le regole del gioco 

Torniamo ora al gioco e al suo scopo: “Essere la prima squadra a raggiungere la casella di arrivo facendo indovinare ai propri compagni i vocaboli e le espressioni misteriose senza usare le parole taboo”. Ci si divide in due squadre, sedute l’una di fronte all’altra, e ciascuna sceglie il proprio suggeritore, che andrà a posizionarsi in mezzo agli avversari; dirimpetto ai propri compagni, nel tempo di una clessidra, il membro designato dovrà far indovinare loro le parole contenute nelle 252 carte in dotazione al gioco senza pronunciare per nessun motivo le 5 parole taboo indicate nella stessa carta.

Più parole indovinerà nel tempo di una clessidra, più la squadra avanzerà nel tabellone di casella in casella. Ma, attenzione, la squadra avversaria riceverà a sua volta un punto per ogni carta “bruciata” dal suggeritore per violazione delle regole. Quali sono dunque le regole del “buon suggeritore”? Non è semplice far vincere i propri compagni, in preda al panico per questa responsabilità, dovendosi attenere a determinati vincoli semantici: non si possono infatti pronunciare neanche le singole parole di una voce proibita composta da più parole; non si possono usare, inoltre, derivati o composti delle parole proibite.

Al bando anche “mimi”, onomatopee, abbreviazioni, sigle e anagrammi! Insomma, non c’è scampo: è richiesta, da un lato, una grande abilità sinonimica, dall’altra uno sviluppato intuito e una buona dose di fantasia. Il divertimento non mancherà, soprattutto in quanto non ci sono limiti e penalità per i rocamboleschi tentativi della squadra di indovinare la parola misteriosa o per gli stratagemmi linguistici del suggeritore per aiutare i propri compagni.

Come non ci sono limiti per chi si lascia sedurre fino in fondo dai Romics. Godetevi il video.

di Luca Chapelle

L'articolo Taboo, qual è l’origine del famoso gioco da tavolo? proviene da Il Fatto Quotidiano.

La Commedia di Dante? Un capolavoro e una caccia al tesoro

$
0
0

Dante come Cristo 

La Commedia è un dedalo intellettuale che Dante, lungo tutto il suo cammino, ha disseminato di segreti come in un gigantesco gioco, dominato dall’implacabile legge dei numeri. Il poeta, avviando la Commedia («Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita»), pare dichiarare di apprestarsi a compiere il suo viaggio nell’aldilà a 35 anni, ma dirà più avanti a Brunetto Latini (Inf. XV, 49-51):

“Là su di sopra, in la vita serena”,
rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle
avanti che l’età mia fosse piena”.

Il 7 aprile 1300 Dante, che era nato tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli (Par. XXII, 106 sgg.), non ha ancora compiuto 35 anni; ne ha 34 come Gesù di Nazareth e, come lui, “muore” poco prima di aver raggiunto il “colmo” della vita e risorge all’alba del terzo giorno, con l’arrivo sulla spiaggia del Purgatorio: «Ma qui la morta poesì resurga, / o sante Muse» (Purg. I, 7-8). Sono passati poco più di due giorni da quando si è smarrito nella selva, e un giorno e mezzo è trascorso dal superamento – nella tarda serata del venerdì – della porta dell’Inferno. Il 14 del mese di Nisān (inizialmente Abīb) del calendario ebraico, quando Cristo morì, era il giorno della prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. Non raggiunge i due giorni il periodo in cui Gesù, morto quasi a mezzogiorno di venerdì, è risorto all’alba di domenica, in quel die Solis di cui Dante parla, a questo proposito, nella conclusione della Questio de aqua et terra (88):

Et hoc factum est in anno a nativitate Domini nostri Iesu Christi millesimo trecentesimo vigesimo, in die Solis, quem prefatus noster Salvator per gloriosam suam nativitatem ac per admirabilem suam resurrectionem nobis innuit venerandum.

Il poeta si sente insomma apparentato a Cristo e in suo nome, e per suo conto, opera da profeta. Che la sua vita e il suo viaggio, in questo modo, si proiettino ben oltre la loro pur poderosa esemplarità, fa acquisire al primo canto dell’Inferno più intensa forza in quanto al parallelismo tra il microcosmo richiamato in apertura (esistenza umana) e il macrocosmo (esistenza del pianeta) evocato dai vv. 37-40. E non è tutto, perché anche di quel “mezzo del cammin di nostra vita”, di quel “nostro” che pur riprende i Salmi, non può sfuggire il doppio riferimento: al “prescelto” per il compimento di una nuova missione salvifica e alla storia di un’umanità che è chiamata a parteciparvi sullo sfondo di un grande mutamento, coincidente proprio con l’anno 1300.

In pellegrinaggio, nel nome della “Commedia”

Dante non è stato dunque solo un grande poeta o un fine linguista, innovatore e sperimentatore del volgare (creatore di tanti neologismi, che hanno espresso il pieno potenziale dell’italiano quando ancora muoveva i primi passi). La cultura occidentale, e la nostra in particolare, è debitrice del monumento dantesco anche per i suoi sorprendenti enigmi, quasi da “laboratorio”. Quale esperimento migliore, per dimostrare “scientificamente” quest’assunto, che mettersi allora alla prova con una caccia al tesoro a tema dantesco?

Ce ne sono state diverse negli ultimi anni. L’ultima è stata organizzata dall’associazione Taverna del Drago, che ha trasferito trama e itinerario della Commedia nel panorama di Cassino, coinvolgendone gli abitanti in un’avventura entusiasmante, nella giornata di domenica 23 ottobre 2016, attraverso enigmi numerici o lessicali, storici o artistici che chiamassero in causa l’identità e la storia cassinese.

L’allestimento più spettacolare, quando si parla di itinerari cittadini ispirati alla Divina Commedia, risale però ai primi anni del Novecento. Al tempo, nel centro storico della città di Firenze, furono collocate 34 lapidi con su riportate citazioni del capolavoro di Dante che avessero, anche in questo caso, una qualche relazione con la città e i suoi vari luoghi. L’iniziativa, voluta dal Comune del capoluogo toscano, fu realizzata con il fondamentale contributo di alcuni illustri dantisti e vede riprodotte 9 citazioni dall’Inferno, 5 dal Purgatorio, 20 dal Paradiso. Una citazione (Inf. XXIII, 94-95) si trova nei pressi della casa di Dante, sita in via Santa Margherita (fig. 1); una seconda (Inf. XV, 81-84) è stata collocata in via de’ Cerretani, nei pressi di quella chiesa di Santa Maria Maggiore in cui fu sepolto Brunetto Latini.

Un viaggio nel viaggio, un gioco nel gioco, che vale la pena rifare.

lapide-1

Fig. 1

lapide-2

Fig. 2

di Massimo Arcangeli, Sandro Mariani e Luca Chapelle

L'articolo La Commedia di Dante? Un capolavoro e una caccia al tesoro proviene da Il Fatto Quotidiano.

Game on 2.0 a Roma, videogiochi vintage con un occhio al futuro

$
0
0

Ai tempi miei, cari miei

Fino agli anni Novanta abbiamo regolarmente alloggiato nelle nostre case videoregistratori analogici che funzionavano in vhs (Video Home System), allineando sugli scaffali delle librerie le grosse cassette rettangolari che gli facevamo “mangiare”. Negli anni Settanta e Ottanta avviavamo videogiochi per console domestiche caricati su cartucce oggi sopravvissute solo su alcune console portatili; poteva capitarci di inserire in home computer dotati di registratore programmi archiviati su cassette a nastro che sarebbero state via via sostituite dai floppy disk, la cui storia era iniziata nel 1967 con l’immissione sul mercato di dischi a 8 pollici; affidavamo perlopiù i nostri documenti elettronici proprio alla memoria esterna di quegli inconfondibili dischetti rimovibili (ridotti alle dimensioni di 3,5 pollici) da infilare nelle apposite fessure, per leggere i quali dobbiamo ora poter disporre di un lettore esterno da collegare con un cavetto al nostro computer.

La Apple li ha spediti in soffitta nel 1998, sostituendoli con i cd-rom (sarebbero poi venuti gli zip drives, le memory cards, i dvd, le chiavette usb…). La Sony l’avrebbe seguita nel 2011. L’ultima a cedere è stata la Verbatim; ha gettato la spugna alla fine del 2015. Un altro mondo, anche rispetto a quel 30 aprile 1986 in cui partì, da Pisa, il primo messaggio di collegamento all’immensa ragnatela che è il web. Ce ne possiamo rendere conto visitando la grande mostra di videogiochi itinerante e interattiva, con oltre cento postazioni operative, appena sbarcata – per la prima volta – in Italia. Si è aperta il 3 marzo a Roma (Game on 2.o), allo Spazio Tirso, e fra le parole ed espressioni chiave della sezione Future abbiamo soprattutto registrato, anche con l’aiuto di Marco Accordi Rickards, ibridazione, convergenza, realtà aumentata e attività neurale.

Tutti con uno, uno con tutti

L’ibridazione penetra o lambisce ormai ogni cosa, non solo i videogiochi: i generi letterari e quelli televisivi, le scuole di pensiero e i movimenti religiosi, gli schieramenti politici e l’industria editoriale (con il self publishing), e ancora le identità sessuali, gli apparati economico-finanziari, le pratiche alimentari (i flexitariani, che non sono né vegetariani né vegani, mangiano carne o pesce al massimo due, tre volte alla settimana); l’entertainment, con la sua ubiqua presenza, corrompe l’informazione dei telegiornali, dei programmi di approfondimento e d’inchiesta, dei reportage e dei rotocalchi di attualità (infotainment). A favorire tutto questo, a partire dalla stessa “fluidità” della sua scrittura, Internet: quando ci muoviamo lungo le rotte della navigazione in rete monta forte in noi la sensazione di poter attingere a tutte le conoscenze del mondo senza diaframmi, confini, barriere fra un settore e l’altro, fra un campo esperienziale e l’altro. Anche la convergenza chiama in causa soprattutto i media. Produce a sua volta mescolanza, contaminazione e, talvolta, negoziazione.

Fra i suoi effetti più macroscopici la concentrazione, in un unico supporto portatile, di forme e contenuti i più diversi: la scrittura va a braccetto con le foto e i video, la radio intercetta la televisione, i giornali interagiscono con le capientissime maglie della Rete. Siamo qui di fronte, in molti casi, a reciproche invasioni di campo per effetto della decisa progressione verso l’annullamento o la riduzione di ogni distanza. La realtà aumentata è l’ultima frontiera. Coinvolge l’attività neurale e, con essa, i modi con cui approcciamo le forme del sapere e le modalità con cui vengono espresse. I nostri neuroni si adattano ogni volta (anche se via via più lentamente, con l’avanzare dell’età) alle sollecitazioni cui li sottoponiamo, e una prepotente accensione sensoriale visiva o auditiva può modificare perfino la nostra memoria a lungo termine, indebolendola, e, così facendo, indebolendo le capacità necessarie ad approfondire un testo scritto nelle sue implicazioni (compresi i mezzi necessari per impadronirsene, o per connetterlo con altri testi).

Le simulazioni virtuali sempre più reali, sostitutive delle esperienze del mondo, cui oggi ci “sottomettono” i più sofisticati videogame incideranno, inevitabilmente, anche sul nostro destino di apprendenti. Non ci renderanno più stupidi, come pensano i soliti profeti di sventura, ma ci trasformeranno. E, possiamo starne certi, lo faranno a fondo.

Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

L'articolo Game on 2.0 a Roma, videogiochi vintage con un occhio al futuro proviene da Il Fatto Quotidiano.


Il Drago d’Oro 2017 e la lingua ‘fantasy’ dei videogiochi

$
0
0

Premio alla carriera al giapponese Fumito Ueda, al Guido Reni District di Roma, per il Drago d’Oro (Premio Italiano del Videogioco, 15-19 marzo) del 2017. La cerimonia di assegnazione si è svolta, giovedì scorso, all’interno del Let’s Play (Festival del Videogioco), alla sua prima edizione. Il Drago d’Oro per il miglior videogioco dell’anno (2016) è andato a Final Fantasy XV.

Eccone la presentazione. Lasciata la capitale insieme ai suoi migliori amici per convolare a nozze con la sua fidanzata Luna, il principe Noctis ascolta atterrito mentre i notiziari radio annunciano la sua morte, quella di suo padre, re Regis, e della sua promessa sposa. Il presunto armistizio tra il regno di Lucis e l’Impero è fallito e la sua terra natale è sotto attacco. Per scoprire la verità e riconquistare il trono, Noctis e i suoi fedeli compagni dovranno affrontare pericoli di ogni genere in una spettacolare ambientazione open world, tra creature gigantesche, straordinari paesaggi, culture diverse e infidi avversari. Davvero un open world il pianeta dei giochi virtuali. Anche sul piano espressivo, soprattutto se il gioco è di ruolo.

<Lilyth of Asura> bannatemi se avete il coreggio mooood

<Bloody Nightmare> BAH IO VADO SU WOW NOTTE A TUTTI…FANCULO PROGRAMMATORI

<Lord Elius> TUTTI DIETRO L’ARALDOOOOO

<Patty Sailor> chi mi aiuta a fare l’infamiaaaa? ^__^

<Biriffi the Bull> sto giocando con le mie Palle

<Lord Elius> TUTTI DIETRO L’ARALDOOOOO

<Feanor Shadowmoon> qualcuno ha armor della fow per farsi 1foto nel cerchio?

<Gianba the Animal> TUTTI DIETRO ALL?ARALDOOOOO

<Lilyth of Asura> modo siete tutti dei tardoni

<Feanor Shadowmoon> io sloggo, ciao

<Gianba the Animal> ti seguo a ruota, a domani

<Belial the Shadow> allora

<Belial the Shadow> finisco un quest

<Belial the Shadow> chiamo

<Belial the Shadow> king

<Eva Speedaxe> ma quando fai il pg per pvp… ce lo puoi mettere il pet?

<Belial the Shadow> e facciamo pvp?

<Belial the Shadow> sì

<Eva Speedaxe> basta che metti incanta animale in barra

<Ragnar Mutila Corpi> chi fa la missione

<Ragnar Mutila Corpi> ?

<Dante Crimsomeyes> io

<Ragnar Mutila Corpi> posso unirmi?

<Ragnar Mutila Corpi> ciao

<Dante Crimsomeyes> ciao ^^

<Belial the Shadow> ok

<Crociato Mistico> dove si va di bello??

<Dante Crimsomeyes> di brutto vorrai dire

<Belial the Shadow> devo passare

<Belial the Shadow> in città

<Belial the Shadow> compro delle pozioni

<Crociato Mistico> si dante l’importante è raccattare qualche soldo

<Belial the Shadow> mi aspettate?????

<Ragnar Mutila Corpi> muauaua mi avvicino alla tenda ho visto un mio amico

<Dante Crimsomeyes> facciamo che ci si vede qui fra mezz’ora?

<Eva Speedaxe> io non posso ora stacco ci si vedeeee

<Ragnar Mutila Corpi> anke prima io

<Belial the Shadow> ok a dopo ciaooo

Qui il modo del comunicare è una comune chat testuale. Il gioco, ispirato al genere fantasy di tradizione medievale, appartiene ai Corpg (Competitive/Cooperative Online Role-Playing Game), una sottocategoria dei Massive Multiplayer Online Role-Playing Game; anziché concentrare tutti i personaggi partecipanti in un unico grande ambiente, come propriamente avviene nei Mmorpg, li distribuisce in singole stanze a cui soltanto alcuni di essi possono di volta in volta accedere per portare a termine la loro missione.

Nell’esempio i partecipanti sono 11 e i loro nickname ora rinviano all’universo fantasy, con il corredo nomenclatorio di elfi, demoni, divinità nordiche e quant’altro (Feanor Shadowmoon, Lord Elius, Ragnar Mutila Corpi), oppure all’antica demonologia mediterranea o orientale (Lilyth of Asura) o all’immaginario religioso cristiano (Crociato Mistico), ora sono innescati da intenti dissacratori e goliardici (Biriffi the Bull, Gianba the Animal), ora si ispirano a certa cinematografia di genere (Bloody Nightmare, che è anche il titolo di un trash-horror che fa il verso ai film della saga di Venerdì 13, e forse anche Belial The Shadow), ora quasi traducono in inglese i soprannomi a cui ci hanno da sempre abituati la fumettistica e la cinematografia western (Eva Speedaxe, cioè ‘ascia veloce’) o richiamano in modo esplicito qualche tratto del loro aspetto, ovviamente nella finzione del personaggio che incarnano (Dante Crimsoneyes, ‘occhi cremisi’). Una lingua di frontiera. Centrifuga, contaminata, provocatoria.

Restituisce ben più di qualcosa delle prestazioni linguistiche delle innumerevoli “tribù” – non solo virtuali – del Terzo Millennio. Avremo modo di tornare sull’argomento. Guardatevi intanto il video che abbiamo girato per il Drago d’Oro 2017. Buona visione.

Massimo Arcangeli & Sandro Mariani

L'articolo Il Drago d’Oro 2017 e la lingua ‘fantasy’ dei videogiochi proviene da Il Fatto Quotidiano.

Tuttologo, Complottista o Pornogastrico: tu quale ‘Faccia da Facebook’ sei?

$
0
0

Stiamo ultimando, un po’ per gioco, un libro dal titolo: Faccia da Facebook. Nazi, internettuali, pornogastrici e altre specie social.

Abbiamo individuato i 12 profili di seguito elencati: ci aiutate ad aggiungerne eventuali altri che ritenete interessanti? Se ci date il vostro contributo di riflessione lo fotografiamo e lo inseriamo nel nostro libro per renderlo il più partecipativo possibile. Sarete anche citati espressamente a parte. Naturalmente, più siamo e meglio stiamo.

  1. La Nalfa Beta
  2. ll Tuttologo
  3. Il Complottista
  4. Il Cuoredoro
  5. Il Nazi
  6. Il Promoter
  7. Il Leone (e La Leonessa) da tastiera
  8. Il Selfie Made Man
  9. Lo “Sveglio” (Il Webete, Il Luser, L’Utonto)
  10. L’Antenato
  11. Il Pornogastrico
  12. L’Internettuale

è un gioco che stiamo giocando anche su Facebook, alla pagina Faccia da Social. Nazi, Pornogastrici e altre creature virtuali. Ecco tre esempi:

 


L'articolo Tuttologo, Complottista o Pornogastrico: tu quale ‘Faccia da Facebook’ sei? proviene da Il Fatto Quotidiano.

Festival del fumetto di Roma, dove gli incontri si moltiplicano

$
0
0

L’immaginario prodotto da Internet e dai nuovi mezzi di comunicazione ha incrociato ripetutamente la strada percorsa dal mondo dei fumetti e dei disegni animati. E viceversa. In greco, la chiocciola informatica è chiamata “papero” (παπί) e soprattutto “paperottolo” (παπάκι), non tanto per il caratteristico incedere, buffo e un po’ ciondolante, del palmipede, ma piuttosto perché assomiglia al profilo della sua testa o al suo occhio sgranato in tanti esempi del genere fumettistico. Facebook, il 24 febbraio 2016, ha introdotto la possibilità di intervenire su un post, come alternative al generico “mi piace”, con un cuoricino (love) o una fra quattro diverse faccine (sorridente, sorpresa, piangente, contrariata): ahah, wow, sigh, grr. Cinque reactions anche personalizzabili, magari con alcuni dei personaggi dei Pokémon.

I 176 emoji  inventati (1999) dal talentuoso Shigetaka Kurita, un giovane dipendente della compagnia telefonica giapponese Ntt DoCoMo intenzionato a creare un set di faccine che contemplassero l’intero repertorio delle espressioni umane, e “allora impegnato nell’ideazione della prima piattaforma internet mobile (i-Mode), un utile servizio per la prenotazione di spettacoli, l’invio e la ricezione di e-mail, la lettura di notiziari e la consultazione delle previsioni del tempo” (Massimo Arcangeli, La solitudine del punto esclamativo, in uscita presso il Saggiatore), era stato ispirato dai manga e dai kanji, i sinogrammi importati dal giapponese.

Originariamente in bianco e nero, si erano poi colorati di rosso, lilla, arancione, blu reale e verde erba; il loro lontano precursore era lo smiley, un cerchio giallo con su disegnati due puntini per gli occhi e una linea curva (concava) per la bocca atteggiata a sorriso e due pieghe ai suoi lati. A visitare l’Arf!, il Festival del Fumetto che si è svolto in questi giorni a Roma (26-28 maggio), e sul quale abbiamo voluto realizzare per i lettori un breve video, si ha l’impressione che anche fra le tecniche fumettistiche di un tempo (e relativi maestri, come Milo Manara) e le nuove tecnologie per l’elaborazione dei balloon si siano ormai moltiplicati gli incontri. Più che a un “gemellaggio”, anzi, ci è sembrato di assistere alla celebrazione di un legame giunto alla sua piena maturità.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

L'articolo Festival del fumetto di Roma, dove gli incontri si moltiplicano proviene da Il Fatto Quotidiano.

‘Giochi senza barriere’, gare senza ostacoli (nemmeno linguistici)

$
0
0

In principio fu l’ “handicappato”

Fino a una ventina d’anni fa era normale adoperare e sentir pronunciare una parola come “handicappato”. Siamo poi passati al portatore di handicap, e quindi al disabile, al diversamente (o differentemente) abile, alla persona con disabilità (o con handicap), al diversabile:

Crediamo che adottare questo termine possa aiutare a considerare la persona con deficit in una prospettiva nuova, più attenta alla storia personale di acquisizione delle abilità e di superamento delle difficoltà. […] Ma attenzione a non fare confusione: diversabile non significa necessariamente autosufficiente (Claudio Imprudente, Da disabile a diversabile, perché?).

Difficile convincersi che lo scarto semantico fra diversabile e diversamente abile sia tale da giustificare l’esigenza di dover rinunciare alla seconda forma a vantaggio della prima. Questa, a sua volta, può non piacere per due motivi:

In primo luogo, vi sono migliaia di persone che, a causa della gravità delle loro menomazioni, sono del tutto incapaci di svolgere attività anche elementari, come vestirsi, assumere autonomamente cibi e bevande, ecc. […]. In secondo luogo, occorre tener conto che le abilità messe in atto dai soggetti con handicap sono le stesse e identiche abilità espresse dalle persone cosiddette normali (Maria Grazia Breda, Diversabilità e diversabile: una terminologia che discrimina).

La soluzione proposta è handicap, un ritorno al passato:

“[H]andicap” è una parola usata nel campo ippico per indicare le maggiori difficoltà che i cavalli più veloci devono affrontare durante il percorso in modo da rendere più equilibrata la competizione. Handicappato, per analogia, è quindi l’individuo che nel percorso della sua vita deve affrontare più difficoltà di un altro per arrivare alla meta: raggiungere l’obiettivo dell’autonomia, svolgere un’attività lavorativa, acquisire un buon grado di soddisfazione personale e di considerazione sociale, ecc. (ibid.).

Ne risulta confermato l’interesse a sostenere un’unica forma, espressione di un unico pensiero. Ma c’è ancora la possibilità di riderci un po’ su. Perché, come ama spesso ripetere la campionessa olimpica Beatrice (Bebe) Vio: “La vita è una figata”.

Da “Giochi senza frontiere” a “Giochi senza barriere”

Giochi senza frontiere segnò la volontà di avvicinare i popoli europei, Giochi senza barriere punta ad abbattere ogni ostacolo alla piena integrazione delle persone disabili. La manifestazione, organizzata dalla onlus Art4sport, ha presentato al via a Roma (il 13 giugno), al posto delle nazioni europee, otto squadre, rappresentanti di altrettante regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Sardegna), formate da 20 giocatori divisi tra atleti con o senza disabilità. A capitanarle ospiti d’eccezione del mondo dello sport e dello spettacolo, tra i quali Marco Tardelli, Marco Materazzi, Demetrio Albertini, dj Ringo, Alessandra Amoroso ed Emma Marrone.

L’anima dell’evento è la famiglia di Bebe. L’atleta, giovanissima, ha subito l’amputazione dei quattro arti in seguito a una grave malattia, e da questa sua esperienza Art4sport ha ricavato l’energia necessaria per una missione portata avanti con dedizione. E così i Giochi senza barriere, partiti (2011) da Mogliano Veneto, sede dell’associazione, sono passati (2015) per l’Arena Civica di Milano (come evento di Expo) per poi approdare, dallo scorso anno, allo Stadio dei Marmi di Roma. A testimoniare l’importanza della manifestazione la collaborazione con il Comitato italiano paralimpico (Cip) e con il Coni, rappresentati dai loro presidenti: Luca Pancalli e Giovanni Malagò.

Stessa finalità per i Giochi senza barriere di Napoli, pensati all’interno della Mostra d’Oltremare di Napoli. L’iniziativa, promossa da un’altra associazione no profit, Tutti a Scuola, ha preso il via, 13 anni fa, da una storia di discriminazione per il mancato invito di un bambino disabile a una festa organizzata dai suoi compagni di classe. Nella versione partenopea, che si è svolta il 12 giugno (un giorno prima di quella capitolina), la competizione ludica ha lasciato ampio spazio a laboratori, spettacoli musicali e teatrali, esibizioni di gruppi o di singoli artisti. Dai Neri per Caso a Valentina Stella.

Ma ora, se ne avete voglia, godetevi il video della manifestazione romana.

L'articolo ‘Giochi senza barriere’, gare senza ostacoli (nemmeno linguistici) proviene da Il Fatto Quotidiano.

Ti dico come mi chiamo e mi dirai (poi) quanto pago

$
0
0

È facile incappare, navigando in rete, in quiz e indovinelli di ogni genere. Test sull’amore, sulla grafia, sulla personalità, su loghi o tatuaggi, sul livello di conoscenza dell’inglese o per ottenere oroscopi personalizzati, per misurare la qualità di un servizio, per calcolare la velocità della propria connessione, per accertarsi delle proprie condizioni di salute: “Le tue feci ti dicono il tuo stato di salute. La cacca è un termometro della tua salute. Sono importanti frequenza, forma e colore“. Firmato Palmago. Anche il banner pubblicitario sottostante, in cui compare il rapper Bello FiGo, è siglato Palmago. È apparso qualche giorno fa sullo schermo dei nostri smartphone, all’interno di un articolo di un quotidiano online (come pure il test sulle feci). Se vi lasciate guidare dal giochino come abbiamo fatto noi, passo dopo passo, e arrivati all’ultima schermata, desiderosi di conoscere il significato del vostro nome, cliccate ancora una volta, attivate l’abbonamento a Palmago per 5 euro settimanali o poco più (a seconda del gestore telefonico).

L’azienda committente del gioco è la Tekka Spa, una compagnia digitale, leggiamo sul suo sito, “presente in 15 nazioni e specializzata nella distribuzione di servizi e contenuti interattivi diretti al mondo del web e della telefonia mobile”. Il servizio fornito è un “sito editoriale dedicato all’intrattenimento e all’informazione di attualità“. Il suo nome, precisamente, è Palmago News & Video, ed è uno dei tanti servizi in abbonamento forniti dalla Tekka, la cui sede legale è a Torino, ed elencati in un sito dedicato sul quale gli utenti possono disattivare l’uno o l’altro seguendo una fra le procedure previste. Facile immaginare come: si apre una finestra e si chiede l’inserimento del proprio numero di cellulare nell’apposito spazio (questo il messaggio di accompagnamento: “Ti invieremo un sms gratuito con una password che ti servirà a completare la procedura. Il numero di telefono verrà utilizzato solo ai fini della disattivazione e non verrà in nessun modo registrato nei nostri sistemi”).

La lista dei giochini in abbonamento di Tekka comprende, oltre a Palmago: YouMeets, Okwit, Meet ‘n’ Fun, Joliess, KlubGame, MusiKlub, BestGameKlub, Slelx, Vop, EdiPlay, TopMobile, MusikDate, PlayNow, VideoLearning e Girls n Go (“un sito innovativo, una comunità intrigante“, ). Se Palmago chiama in causa Bello FiGo, Vop gioca col nome di Rovazzi:

Fra le condizioni contrattuali specificate dalla Palmago, al paragrafo Responsabilità degli utenti, è compresa questa: “Non divulgare messaggi e/o materiale a carattere pornografico, razzista, osceno, blasfemo o diffamatorio, e/o comunque lesivo di diritti di terzi”. Una disposizione per gli utenti, ma rispetto alla quale la Tekka può anche consentirsi uno strappo alla regola; su due dei giochi della lista poc’anzi fornita, Slelx e Joliess, si avverte: “Stai entrando in un’area con contenuti sexy. Vuoi continuare?”.

Se facciamo il test sulla cacca, e clicchiamo una prima volta, si apre una schermata con la domanda “Come sono di solito le tue feci” e quattro diverse opzioni: 1. palline dure; 2. una salsiccia; 3. palline morbide; 4. liquide. Il testo restante avverte di un servizio a pagamento che non si comprende affatto se sarà attivato in quel momento, cliccando su una delle quattro opzioni e confermando, oppure in seguito. Evitiamo, per non dover poi rifare una procedura di disattivazione già eseguita, ma continuiamo a interrogarci sulle forme di pubblicità ingannevole, complici le compagnie telefoniche, i social network, i publishers (spesso aziende operanti al di fuori della Comunità europea) e i siti di molti quotidiani, di un’impresa già multata in passato, per 160.000 euro, dall’Antitrust. Era il 2013, ma ancora nel 2014 le vittime di questo genere di servizi non richiesti, truffate da Tekka e altri soggetti analoghi, avrebbero continuato ad attestarsi su una cifra considerevole (500.000 mila all’incirca), e anche negli ultimi anni non sono mancate le dichiarazioni di utenti ignari che si sono scoperti abbonati a servizi a pagamento gestiti da Trekka.

di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani

L'articolo Ti dico come mi chiamo e mi dirai (poi) quanto pago proviene da Il Fatto Quotidiano.

Viewing all 139 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>